Sono un “diversamente atleta”

Infatti non sono mai stato un grande atleta; nemmeno piccolo, se per questo.

Durante le scuole elementari ho provato a giocare a calcio, in una squadra organizzata, non quello che si giocava per interi pomeriggi negli spiazzi rubati ai parcheggi intorno a casa.

Ma non c’era verso, il confronto con gli altri bambini era impietoso: dimostrava con certezza quanto fossi scarso. In più iniziava a farsi strada la mia indole anarcoide.

Allora, seguendo le indicazioni più in voga in quegli anni, per rinforzare l’apparato muscolo-scheletrico, i miei genitori mi hanno iscritto ad un corso di nuoto presso la piscina Nico Sapio di Genova-Multedo.

E lì, nell’acqua clorata, andavo già meglio. Mi trovavo in qualche modo più a mio agio: il confronto era sì con altri ragazzini ma questo era uno sport individuale, non collettivo. Pur rimanendo sempre “diversamente atleta” (cioè atleta a modo mio, con i miei ritmi e i miei limiti), tuttavia sono riuscito a raggiungere la soglia della squadra agonistica, disputando anche una gara nella piscina di Rivarolo (non mi ricordo su che distanza, forse i 50 m. stile libero).

Ricordo però molto bene un episodio che, molti anni più tardi, avremmo definito “fantozziano”. Allo start, anziché protendermi in avanti per cercare di “rubare” acqua, ho accorciato il tuffo in maniera goffa, rischiando di piantarmi sul fondo della piscina e, ovviamente, perdendo inesorabilmente metri rispetto agli avversari. Come ho concluso la gara è, ahimè, facilmente intuibile.

Mentre “il limitare di gioventù salivo” (Leopardi adesso si rotola nella tomba), ho provato anche la pallacanestro (o, basket che dir si voglia), dal momento che proprio un tappo non ero. Ho frequentato per qualche mese la squadra messa insieme in parrocchia: però anche in questo sport non esprimevo il meglio. Entravo di rado (perché comunque, nonostante l’impegno, rimanevo scarso). Quando entravo, però, e per una botta di culo segnavo due canestri, ero contento perché ero convinto di avere disputato una grande partita.

Poi alle superiori, per emulare il mio carissimo amico Renato, mi sono iscritto al corso per arbitri di calcio organizzato dalla FIGC. Superato l’esame finale, calpestati con ogni condizione meteomarina i terreni in terra battuta degli infimi campi di Genova e dintorni, dopo un annetto il mio spirito anarcoide ha preso il sopravvento e ho chiuso senza rimpianti anche questa esperienza.

L’evoluzione di un runner qualunque

Però, come si dice, non tutto il male viene per nuocere.

Infatti, dovendomi allenare alla corsa, anche se non a quella di endurance, ho iniziato a frequentare un vicino di casa che praticava il “podismo amatoriale” (allora si chiamava così). Ero il più giovane della combriccola (poi mi sarei iscritto al Gruppo Sportivo CULMV – Luigi Rum), quindi non c’era necessità di procedere per gradi: primo allenamento 12 km lungo la Val Varenna. Conseguenza: dolori plurimi e protratti per una settimana almeno.

Poi, con il passare del tempo e dei chilometri, avvenne il primo cambiamento: da runner inconsapevole, presi consapevolezza dell’esistenza del cronometro. L’obiettivo diventava quello di coprire una certa distanza nel minor tempo possibile. La domanda ai compagni di allenamento o di squadra era una: quanto a km? Come accade prima o poi per ogni runner, arrivò anche il giorno in cui corsi per la prima volta 12 chilometri in un’ora: prima ho gioito poi sono svenuto. Al risveglio mi autoproclamai vero “runner”, anche se in fondo rimanevo un gran pippone (ma avevo ancora speranze di migliorare).

Il tempo passava e io continuavo a macinare chilometri e a partecipare alle gare podistiche amatoriali, che venivano definite “non competitive” ma prevedevano premi ai primi classificati. Alla faccia della non competitività!

Poi, non contento del solito tran-tran, come un tarlo un obiettivo si insinuò nella mia mente già completamente deviata: la mezza maratona prima e la maratona dopo.

Le tabelle: compagne inseparabili dei runner disagiati

Senza accorgermene, ho iniziato a consultare le prime tabelle di allenamento. Le tabelle…

All’inizio le leggevo con diffidenza sulle riviste specializzate dell’epoca (Jogging e, successivamente, Correre). Poi, ad un certo punto, sono rimasto avviluppato nelle loro spire. Tempi, km, passo medio, velocità, ripetute, lunghi, lunghissimi, progressivi, salite brevi… Tutto ruotava intorno a queste parole.

Però, nonostante la mediocrità dell’atleta, mi sono tolto qualche piccola soddisfazione cronometrica: la mezza maratona in 1h26’ e la maratona (l’unica cui abbia mai preso parte) in 3h35’. Roba da tirarsela manco fossi Gelindo Bordin (il mio mito di allora) alle Olimpiadi di Seul del 1988.

All’improvviso ti cambia la vita

Poi, d’improvviso l’incontro con lui: il tumore. Nello specifico un linfoma Non Hodgkin ad “alto grado” localizzato alle ossa. Le priorità diventano altre: elmetto in testa e combattere per la vittoria. Chemio, autotrapianto di midollo e, ciliegina sulla torta, protesi d’anca a destra. Sono uscito dal tunnel cambiato, molto cambiato ma VIVO!

E adesso? Ritrovatomi “bionico”, con un corpo estraneo nella zampa destra che sport avrei potuto praticare? Certamente il nuoto, forse il ciclismo… Semplicemente, per paura di rompermi, niente.

Anche chi mi circondava cercava di scoraggiare la mia voglia di recuperare la dipendenza da endorfine.

Negli anni successivi sono arrivate le prime esperienze lavorative (ho dato vita a una società di consulenza), il matrimonio e quelle prove cui la vita ti mette di fronte ma delle quali faresti volentieri a meno.

Non è poi proprio tutto finito…

Nel 2011 siamo con Anna in vacanza a La Thuile e, durante un’escursione vedo scritto sulle pietre, con uno spray rosso “GTV” e… TAAC: ho avvertito in quel momento che la mia vita sportiva stava per riprendere. E’ scattato qualcosa che non era il solito “clock” che sentivo nella zona lombare quando mi piegavo per allacciarmi le scarpe…

Ritornati in albergo, cercai disperatamente qualcuno che mi potesse confermare i sospetti: si trattava di una gara di corsa? La risposta era composta di tre parole: Gran Trail Valdigne!

Trail: che tipo di gara è? Quali le regole? E io avrei potuto partecipare solo camminando il più velocemente possibile? I giorni successivi, nei ritagli di tempo, cercavo di acquisire quante più informazioni possibile. Ma ne ero sicuro: avevo trovato la sfida giusta per un cinquantenne bionico.

Tornato a Genova, iniziai con metodo e disciplina gli allenamenti di camminata veloce e nel contempo ad accumulare indumenti, scarpe, attrezzatura per il mio primo “trail”.

Anche in questo caso, come agli esordi nel running, non ci sono state mezze misure: subito iscritto alla CANTOCA – Trail dell’Antola oltre 40 km e circa 2000 m D+. Un perfetto incosciente, nel senso etimologico del termine. Ma, nonostante il poco allenamento, arrivo in fondo aggiudicandomi il terzultimo posto. Nonostante i dolori postumi alle gambe per oltre una settimana, ero contento come George Pig quando salta nelle pozzanghere di fango!

Bradipo al Trail Monviso Race

Da questo momento è tutto un crescendo di allenamenti più o meno mirati e di obiettivi quasi sempre irraggiungibili: entusiasmo a mille! Quando ne parlavo, gli altri mi guardavano con diffidenza. “Sei pazzo” è la frase che mi sono sentito rivolgere più spesso. Familiari, amici, semplici conoscenti: tutti pensavano che fossi (e che in parte sia ancora) un disadattato, uno con problemi, uno con chiari segni di disagio mentale…e forse non hanno nemmeno tutti i torti!

Ma come tutti i pazzi io non mi sentivo (e non mi sento) tale. Mi sentivo (e mi sento) semplicemente da Dio. Quando riesco ad andare “per bricchi” (in montagna, in genovese) mi sento VIVO, in forma, attivo, pieno di energie.

Conclusioni agrodolci

Ed eccomi arrivato alla fine di queste riflessioni sulla mia esperienza di atleta disagiato.

Come tutte le cose belle, prima o poi, inevitabilmente arriverà anche il momento in cui la carcassa che mi porta in giro inizierà a funzionare meno bene. Fa parte del gioco: la zampa bionica (quest’anno festeggiamo 25 anni insieme) ogni tanto mi ricorda che c’è anche lei; le primavere, inesorabilmente passano anche per me (anche se quando sono per monti mi sento immortale); la schiena che in conseguenza di ciò mi da un po’ più fastidio…

Pertanto, avendo dimostrato a me stesso che ce la potevo fare anche io a finire un “ultratrail” (il Neandertrail e quello del Lago d’Orta), che ce la potevo fare anche io a fare lunghi percorsi in montagna (non necessariamente in gara), mi sto avviando verso il declino agonistico.

Certo, tutti gli anni rinnovo il certificato medico agonistico e ogni tanto mi viene voglia di iscrivermi a qualche gara e, in futuro, se sarò nelle condizioni giuste (soprattutto di serenità) per affrontare la preparazione lo farò sicuramente.

Per ora…no.

[dedicato a tutti gli atleti disagiati che sanno che non vinceranno mai una gara e il cui unico avversario è colui/colei, ogni giorno meno giovane, che incrociano tutte le mattine al di là dello specchio]

 

 

Perché vado in montagna? Perché alpinismo vuol dire natura (…) e perché in natura ritrovi l’autentico senso della vita, il segreto di una gioia interiore che nessuna vicenda terrestre potrà annientare  – Guido Rossa –

La montagna serve anche a ricordare: era il 24 gennaio 1979 quando Guido Rossa, un operaio, un sindacalista, un uomo di 44 anni che dimostrava ogni giorno il suo impegno per costruire il futuro dell’Italia, lavorando in fabbrica, fu ucciso a Genova dalle Brigate Rosse. 

Rossa è, e rimane, un simbolo della lotta all’eversione, ma non è di ciò che voglio parlare.

Non tocca a me.

Guido è un amante della montagna ed è questo aspetto che più si addice a easy2trail.

Approfondendo il suo profilo alpinistico, ho scoperto che nel 1963, a 29 anni, partecipa alla spedizione del CAI UGET di Torino al Langtang Lirung (7.227 m), nell’Himalaya del Nepal. 

Un fatto curioso, che testimonia la sua passione è questo.

Grazie a particolari bulloni presi alla Fiat, dove lavora prima di trasferirsi all’Italsider di Genova, realizza primordiali chiodi a pressione (non sono alpinista, non mi vergogno a dire che ho paura della roccia) con i quali sarà il primo a chiodare le vicine palestre. Soprattutto Rocca Sbarua, la palestra dei torinesi.

Nel suo curriculum anche una via sulla parete nord del Corno Stella, nella bellissima Valle Gesso (nel sito ci sono due itinerari: uno al Colle del Chiapus e  uno ai Laghi della Sella)

Ad un certo punto della sua esperienza ha avvertito l’urgenza di mollare con l’alpinismo e “scendere” a valle, fra gli uomini. Si impegnò con caparbietà e passione. Il resto è tristemente noto.