Renèuzzi: le rovine…

Alternando tratti di discesa e tratti in falsopiano, dopo qualche decina di minuti arriviamo a Renèuzzi (1.078 m), l’ultimo dei Villaggi di Pietra, abbandonato definitivamente nel 1961. 

Cimitero di Renèuzzi

Entrando nell’abitato, sulla sinistra si trova il minuscolo cimitero. Sulla destra, quello che rimane in piedi dell’Oratorio di San Bernardo Abate con i caratteristico campanile a vela dal quale sono state rimosse le campane, che non dovevano essere tanto grandi.

Dopo aver aperto il cancello arrugginito, entriamo: il cimitero non ospita che poche tombe circondate dalle erbacce e senza più segni di riconoscimento dei defunti. Ci dobbiamo avvicinare molto per leggere le iscrizioni e scoprire che, ad eccezione di una, sono tutte molto datate.

Ma vicino all’ingresso ce n’è una più grande e recente. Ha una bizzarra forma a casetta e appare sproporzionata rispetto alle dimensioni del cimitero. Reca la lapide con foto di Davide Bellomo, del quale parlerò più avanti.

Usciti dal cimitero, mentre Giuliano prosegue l’esplorazione dell’abitato io sono incuriosito, invece, dall’Oratorio. Immagino che Renèuzzi, per avere un luogo di culto di queste dimensioni, nell’800 dovesse essere uno dei villaggi più grandi di questo versante della Val Borbera.

Interno dell’Oratorio

L’Oratorio, pur essendo diroccato, si rivelerà essere l’edificio meglio conservato del villaggio: oltre al citato campanile anche un altare dipinto.

Delle case non rimangono che i muri perimetrali. La più curiosa che osserviamo è posta all’ingresso opposto rispetto a quello dal quale siamo arrivati. Ha i muri arrotondati, forse per facilitare il passaggio di carri o slitte trainati dagli animali (buoi o muli).

 

…l’isolamento e l’abbandono…

I segni dell’abbandono

Dunque, siamo nel 1961. L’Italia corre verso il boom economico, le città brulicano di vita e nuovi quartieri spuntano ovunque: “…la dove c’era l’erba…” ??. Per un’Italia che cresce, un’altra fa fatica, arranca. La montagna si spopola e invecchia: gli anziani e i pochissimi giovani rimasti salutano ogni giorno qualcuno che se ne va, le porte si chiudono e nella maggior parte dei casi non saranno mai più riaperte.

Sono anni spietati per i paesi isolati come Renèuzzi.

Niente acqua, niente elettricità, niente terra e pochi pascoli. Mentre le città diventano più grandi e moderne, sulle montagne c’è ancora chi vive senza lampadina e rubinetto: estremi del boom e di una modernizzazione incompleta.

Ma il paese non è morto da solo, agonizzando lentamente tra partenze e vecchiaie.

No, questa volta si porta con sé due vite e una storia d’amore e follia.

…e un omicidio passionale

In quell’estate di cinquantanove anni  fa, nel paese non è rimasto che Davide Bellomo che all’epoca aveva 31 anni. Davide si era innamorato di Maria Franco, ventenne di Ferrazza, il villaggio che si incontra prima provenendo da Vegni.

Maria sembrava non essere insensibile alle attenzioni di Davide. Tuttavia i due erano cugini e la famiglia di lei, una delle ultime rimaste a Ferrazza, era contraria alla relazione per via della stretta parentela.

Un giorno di fine estate, Maria comunicò a Davide che se ne sarebbe andata con la famiglia in un altro paese della provincia di Genova, in cerca di un lavoro e di una vita migliore. 

Alla notizia Davide andò definitivamente “fuori di melone”; peraltro, date le condizioni ambientali, non me lo immagino tanto “in bolla”. Perciò, dopo aver visto partire gli amici di infanzia e morire gli anziani realizzò, drammaticamente, che sarebbe rimasto anche senza di lei.

Non conosceva il mondo al di fuori del suo microcosmo: per lui esistevano solo Renèuzzi, il lavoro (forse, più realisticamente, la fatica) e Maria.

Nel suo delirio, passò in breve tempo dalle minacce ai fatti e la uccise sparandole nove colpi con una vecchia pistola.

Adesso era rimasto definitivamente solo con il suo rimorso.

Una colpa insormontabile che Davide mise a tacere sparandosi con la stessa pistola con cui uccise la ragazza, presumibilmente lo stesso giorno: la data della morte indicata nelle tombe di Davide e Maria è la stessa (22 settembre 1961).

“Papà e mamma dolenti” è la pietosa dedica sulla tomba.

Questa, in estrema sintesi, la storia di Davide e Maria, nati nel posto sbagliato nel momento sbagliato.

Epilogo

Girare tra le rovine di Renèuzzi, così come di quelle di Casoni di Vegni, porta a riflettere sulla solitudine, sulla fatica e sulla miseria.  Su queste vite il cui ritmo era scandito dalla natura, che non era per niente amica.

Scoprire questi villaggi, nonostante mi fossi documentato un minimo e quindi immaginassi cosa avrei trovato, mi ha regalato emozioni particolari. 

Vi consiglio senza il minimo dubbio questa escursione: non particolarmente difficoltosa ma sicuramente affascinante. 

La Valle dei Campassi merita ulteriori visite: devo soddisfare ancora altre curiosità…

Altre foto al seguente link: https://www.facebook.com/easy2trail/posts/2845051302260948

Essendo ormai “impallato” con l’esplorazione e la scoperta dei villaggi fantasma dell’Appennino ligure-piemontese, ecco il racconto dell’escursione ai “Villaggi di Pietra” in Val Borbera.

Prologo

Venerdì sera.

Telefono a Giuliano per sapere se ha programmi escursionistici per il weekend.

Mi dice che vorrebbe fare qualcosa perché è un po’ di tempo che è fermo: l’allenamento è quello che è e perciò non vorrebbe sfiancarsi. Benissimo! Ho già la proposta pronta: un giretto nella Valle dei Campassi, in alta Val Borbera, alle pendici del Monte Antola.

Conosciamo entrambi la Val Borbera per aver preso parte, nel corso degli anni passati, alle varie gare di trail nell’ambito della manifestazione “Le Porte di Pietra” (uno dei trail storici a livello nazionale), ma non ci siamo mai spinti in questa valle selvaggia e incontaminata.

Concordiamo l’appuntamento per domenica mattina, di buon’ora, all’uscita del casello di Busalla.

Si parte

Domenica mattina. 

Sveglia alle 5:00 per essere alle 7:00 puntuale all’appuntamento. Preparo nell’ordine: colazione, zaino e borsa con cambio indumenti e ammennicoli vari. Saluto Anna, non particolarmente entusiasta di essere svegliata all’alba, quindi salgo in macchina alla volta di Busalla.

Ancora con i neuroni in stand-by mi si presenta un problema logistico: dove sarà meglio imboccare la A7, stante la chiusura della galleria Montegalletto? Non volendo sforzarli già di primo mattino, propendo per l soluzione più semplice: andare fino al casello di Genova-Bolzaneto per strade urbane, dal momento che il traffico è nullo.

Entrambi puntuali come orologi svizzeri ci avviamo alla volta di Vegni, punto di partenza della nostra escursione ai Villaggi di Pietra.

Usciti al casello di Arquata Scrivia, la strada è quella che è: un nastro di asfalto che attraversa tutti i paesi della Val Borbera i cui sindaci cercano di fare cassa con le colonnine arancioni degli autovelox. Funzioneranno tutti? Spero proprio di no; anzi, per dirla tutta, spero che non ne funzioni neanche uno!

Il ponte (?) sul torrente Carreghino

Si sale costeggiando il torrente Borbera, poi attraversando il guado rialzato (definirlo ponte può sembrare eccessivo) sul torrente Carreghino. La strada, ora, si fa più stretta e a tratti ripida.

Comunque sia, in pochi chilometri arriviamo a Vegni.

Verso la Valle dei Campassi

Riempio le borracce al trogolo del paese e ci incamminiamo, seguendo le indicazioni (sentiero 242), lungo la strada asfaltata che salendo attraversa l’abitato.

Palina alla Sella dei Campassi

La strada ora è una carrareccia ben tenuta, con una staccionata nuova che protegge il lato a valle. Giunti ad un bivio, però, siamo stati indecisi sulla direzione da seguire per assenza di segnavia: ai bivi dovrebbe sempre esserci! Decidiamo di seguire la staccionata e, dopo poche decine di metri, siamo arrivati alla Sella dei Campassi (1.142 m), un punto panoramico dove è facile riconoscere l’inconfondibile croce di vetta del Monte Antola.

Dal colletto, proseguiamo sul sentiero che perde quota e si immerge nella penombra del bosco. Enormi castagni divenuti ormai selvatici tradiscono la presenza di un villaggio. In questa come in altre vallate dell’Appennino la cultura del castagno, considerato l’albero del pane (era la principale fonte di sostentamento), era patrimonio fondamentale della popolazione contadina.

Infatti, dopo aver attraversato l’alveo di due ripidi corsi d’acqua in secca (fortunatamente), siamo arrivati al primo dei tre Villaggi di Pietra: Casoni di Vegni (1.154 m).

Casoni di Vegni: la porta della Valle dei Campassi

Dopo la consueta trasformazione in “Indiana Jones al pesto”, ho iniziato ad esplorare le case del villaggio. I segni di abbandono de distruzione sono evidenti tutto intorno a me. Le case, ad eccezione di una, rimasta più o meno integra, sono tutte crollate. Direi di più: sembrano “implose”: travi, pietre, mattoni, tegole fanno bella mostra di sé.

Madia in legno e, sullo sfondo la mangiatoia

Le porte e le finestre delle case sono aperte e in quelle non completamente crollate si possono vedere ancora: porte senza più vetri, mobili in legno (non dell’IKEA ?), forse madie in cui gli abitanti conservavano gli alimenti; panche, tavoli, sedie. Ad alcune finestre sono rimaste aggrappate, non si sa come, le persiane.  Al piano superiore della prima casa che ho esplorato, inaspettati, due macchinari a mano forse per la macinazione di cereali, castagne o granaglie.

 

La cisterna di Casoni di Vegni

Al centro delle case la cisterna è piena perché alimentata con acqua piovana: ingegno di altri tempi.

Non posso non pensare a quanta fatica devono aver fatto gli uomini e le donne per tirare su queste case e allo stesso tempo addomesticare il versante della montagna.

Il sentiero si snoda in mezzo alle case e dopo una ripida salita ritorna in falsopiano e prosegue nel bosco.

Ferrazza: un tentativo di recupero

Ferrazza vista dal sentiero

Dopo poco più di venti minuti incontriamo il secondo dei Villaggi di Pietra: Ferrazza (1.111 m), adagiato su un pianoro erboso esposto al sole. Rispetto a Casoni, la luce lo rende molto meno tetro.

Si presenta da lontano come non completamente abbandonato: infatti i tetti appaiono quasi tutti recenti e in buono stato. Entrando nell’abitato mi volto e vedo un vecchio portico: non ospita più gli attrezzi agricoli e non serve neppure da riparo per il fieno tagliato. Al centro ora si trova un grande tavolo realizzato semplicemente con pietre poste una sull’altra, come per un muretto a secco, e in cima una grande piano di legno, accanto ad esso delle sedie di ferro. Per il momento può servire come un riparo in caso di maltempo.  In attesa che qualche voce torni a riecheggiare tra le pietre.

Il sentiero prosegue in piano e, poco distante dall’abitato, sulla sinistra ecco un lavatoio e una cappelletta votiva. E’ costruita come una vera e propria chiesa ma dalle dimensioni lillipuziane. Sopra la grata in legno della porticina l’anno di costruzione (immagino io): 1906. Dietro la porta si scorge una stinta immagine della Madonna e un mazzo di fiori seccati.

Quindi il sentiero prosegue nuovamente nel bosco…

Altre foto in: https://www.facebook.com/1070549483044481/posts/2841321942633884

 

(Continua)

 

Paesi abbandonati

Ho deciso di fare una cosa un po’ diversa dal solito: visitare uno dei numerosi paesi abbandonati del nostro Appennino cercando di fare qualche fotografia almeno dignitosa: il lavoro per migliorare la mia tecnica fotografica sarà lungo e non privo di delusioni.

Domenica 26 luglio: siamo nel pieno del caos sulle autostrade liguri.

Non volendo vanificare il beneficio della gita in montagna (sulle amate Marittime), mio malgrado, sono stato costretto ad optare per un’escursione più vicino a casa, che mi consentisse più varianti per il percorso di ritorno.

Quindi preparo lo zaino e salgo in auto alla volta di Marmassana, piccolo paese sopra Isola del Cantone. Sono gli ultimi lembi di terra ligure: di là c’è la Val Borbera che è provincia di Alessandria.

Seguo la A7 e i molti salti di carreggiata per i lavori alle gallerie impongono attenzione e fanno letteralmente “impazzire” il navigatore, che non si capacita del fatto che stiamo procedendo “contromano”.

Esco dall’autostrada e inizio a seguire le indicazioni del navigatore: la strada inizia a prendere quota e io inizio a domandarmi se sia quella giusta. Chissà perché “mi ero fatto persuaso” (direbbe Montalbano) che ci fosse una strada diversa… Ma proseguo…

Finalmente arrivo in prossimità di un bivio con le indicazioni verso Marmassana. La strada si fa stretta e io inizio a pregare di non incontrare auto in senso contrario.

Dove sono finito?

Arrivo a Marmassana, la attraverso tutta e trovo posto in un terreno privato, eccezionalmente aperto al parcheggio perché nel pomeriggio ci sarebbero stati i vespri per S. Anna e gli abitanti hanno reso disponibili i loro parcheggi privati.

Appena sceso dall’auto, mi appare questo quadretto di inaspettata bellezza:

La chiesetta della Madonna della Guardia, adagiata su un prato pianeggiante. Sullo sfondo il Monte Reale.

Attraverso il paese e raggiungo il trogolo che avevo notato all’ingresso dell’abitato per riempire la borraccia. Seguo dapprima la strada asfaltata in salita (indicazioni per Casissa), che diventa ben presto una comoda sterrata. Proseguo senza svolte e su una selletta, ecco un pilone votivo e subito dopo un truogolo.

Il panorama abbraccia la sottostante Val Vobbia e, guardando verso est, l’abitato di Caprieto. Altri scorci mi sono familiari, come il Monte Reale e intuisco anche dov’è il Castello della Pietra.

Casissa

Arrivando a Casissa

Proseguo fino a raggiungere la chiesetta bianca dedicata alla Madonna della Salute, ristrutturata dagli abitanti di Marmassana.

Mi avventurerò adesso, come un novello Indiana Jones fra i muri diroccati delle case di Casissa. Sono curioso…molto curioso

Le case di questo paese asembrano fatte di pietre, terra e poca calce. Inizio a pensare alle donne e agli uomini che hanno deciso di vivere qui. Quasi certamente non dovevano avere né acqua corrente né energia elettrica: la vita doveva essere dura, molto dura.

Mi guardo intorno e cerco di immaginare la fatica e il sudore per zappare a mano le poche fasce di terreno disponibili; non credo che si potessero arare con l’aiuto degli animali…

Le case abbandonate

Guardo meglio le case ed è evidente come il piano terra sia occupato dalla stalla: si sfruttava così il calore emanato dagli animali e si poteva, magari, risparmiare un pò di legna per riscaldarsi.

All’interno delle case abbandonate che ho potuto visitare mi è sembrato di essere immerso in un’altra dimensione temporale…

Tutto raccontava una storia antica di fatica contadina…

Vecchi mobili, quasi che si attendesse il ritorno di qualcuno…

Letti su cui riposarsi dalle fatiche diventati, ormai, giacigli per animali selvatici…

Sbirciando in quella che doveva essere una cucina…

Il vino non c’è più: bevuto per dimenticare la fatica e il sudore di una vita di stenti… 

Verso il mare

Discese: di ferrovia e viandanti

Giro quindi le spalle alla chiesa e inizio la discesa: mi sembra subito precipitosa, ripida, invitante.

A sinistra vedo il campo di calcio inaugurato negli anni ’70, che ha preso il posto del “Lagaccio”, il bacino idrico voluto da Andrea Doria per irrigare i giardini del Palazzo del Principe. L’acquedotto in muratura per collegare l’acqua al parco della sua umile dimora ? fu realizzato attorno al 1540.

Se per salire ho impiegato una decina di minuti circa, mi è venuto spontaneo pensare che avrei potuto impiegarne altrettanti per scendere a Principe. Conto sbagliato!

Infatti, mentre nel primo tratto il tracciato della cremagliera corre parallelo alla crêuza ma quasi subito scompare dietro le case colorate, il percorso pedonale invece segue un’altra traccia.

Salita Granarolo

Il primo tratto di discesa è caratterizzato da una striscia di mattoni rossi compressa tra due strisce di bitume gettato alla “belin di cane” sulle antiche pietre (scusatemi, ma non mi viene un’espressione che renda meglio l’idea ?)

Incrocio a destra Via della Chiassaiuola che proviene dall’abitato di Granarolo e mi porta verso il passo del Cardellino, indicato da una targa difficilmente leggibile.

Che mistero i nomi di queste viuzze!

Mi piace pensare che siano riferiti a utensili e aspetti della vita contadina che caratterizzava queste colline prima che fossero assalite dal cemento.

La crêuza riprende un po’ le sue caratteristiche mentre ai lati cancelli coperti di ruggine lasciano immaginare lo splendore antico di ville abbandonate o in rovina.

Genova da Salita Granarolo

Il panorama sulla città è superbo.

Nel tratto più abbandonato della discesa (o della salita, se preferite) si scorge il vecchio cancello che dava accesso alla Porta di Granarolo.

Prima del ritorno in città, una villa dal profilo rigoroso cattura la mia attenzione: è una villa del tardo ‘600 appartenuta ai Lomellini che nel 1895 fu acquistata dal Comune di Genova che l’ha resa sede della scuola media Nino Bixio.

Continuo a scendere e, attraversata Via Bari approdo a una nuova discesa.

Salita di San Rocco

Incontri…

Sulle prime non sembra un granché. Soprattutto se confrontata con il tratto appena percorso, punteggiato di ville, mura e apparizioni fugaci di gatti.

Nel primo tratto si incontra la chiesa di San Rocco di Principe.

San Rocco: il santo invocato nelle campagne contro le malattie del bestiame e le catastrofi naturali e come protettore degli animali.

Come a Camogli.

Altra evidenza delle caratteristiche “rurali” di questa parte di città qualche secolo fa.

Oltre la chiesa la situazione “precipita”, nel senso che la discesa acquista pendenza fino alla sorpresa di una nuova porta con la sua brava Vergine custode.

Poi l’infilata di tredici scalini che introduce dapprima a un altro precipizio di mattoni rossi e quindi, dopo una nuova apparizione dei binari, al rush finale.

Da qui la vista è scomposta su più piani: in primo piano il capolinea della Ferrovia; sullo sfondo gli yacht ormeggiati alla banchina dei Magazzini del Cotone; in mezzo gli edifici della Stazione Marittima e la Sopraelevata.

Quasi in fondo…

Un saluto al Miramare e al profilo della Lanterna, poi via verso casa passando per Strada Nuovissima e Strada Nuova…

 

(Fine)

 

 

 

 

Una vera rarità

Capolinea di Principe

Dopo aver terminato i saliscendi a levante, sono andato a scoprire quelli a ponente. Per farlo sono salito, per la prima volta, sulla Ferrovia Principe –Granarolo. 

Si tratta dell’unica linea tranviaria a cremagliera di Genova: una vecchia signora con qualche acciacco ma fiera e orgogliosa di essere sopravvissuta al progresso.

Fu concessa nel 1896 alla “Società Anonima Genovese per le ferrovie di Montagna” ? ? che aveva come obiettivo la valorizzazione dei terreni (un modo elegante per definire la lottizzazione) della ripida collina di Granarolo, spartiacque tra la città e la valle del torrente Polcevera.

La ferrovia fu realizzata tra il 1898 e il 1901 ed è una delle tranvie “a dentiera” più antiche d’Italia.

Si sviluppa per circa 1,1 km, con un dislivello di poco meno di 200 metri, una pendenza media di circa il 16% e una massima di quasi il 22%.

Perché non è una funicolare

La cremagliera

Non si tratta di una funicolare, anche se tutti la conoscono con questo nome.  E’, invece, una ferrovia che impiega una rotaia dentata (detta cremagliera) che corre parallela ai binari, in questo caso al centro.

I veicoli sono dotati di una o più ruote dentate (dette pignoni) che sono collegate al meccanismo di trazione oppure a un sistema di frenatura.

Si può così superare qualsiasi pendenza in sicurezza.

Oggi anche questa, come la Funicolare Zecca-Righi e quella di Sant’Anna fanno parte del parco AMT. Il capolinea di Principe è posto sopra le gallerie della stazione ferroviaria, a fianco del muro di contenimento dell’ex Grand Hotel Miramare.

Un altro pezzo di storia

Il “Grand Hotel Miramare & De La Ville” guardava la città da lassù, con le finestre delle sue duecento stanze suddivise in sette piani.

L’edificio fu fatto costruire dalla “Società Anonima di Alberghi Italo Svizzera” e ha l’estrosa impronta dell’architetto Gino Coppedè.

Fu inaugurato alla fine del 1908, in un’epoca in cui era verosimile pensare alla Riviera di Ponente come un luogo di villeggiatura altolocata. Mi piace immaginare che qui, oltre a star internazionali di Hollywood, importanti personaggi politici e rappresentanti del mondo culturale dell’epoca, abbiano soggiornato anche i facoltosi signori che poi si sarebbero imbarcati sui transatlantici verso le Americhe…

Per un “tuffo” nella storia di questo edificio, cliccate qui).

In carrozzaaaa!

No, non c’è nessuno che grida sul binario come nella scena in cui Frederick Frankenstin saluta sul binario la sua fidanzata Elizabeth (cit. Frankenstein Junior).

La vecchia signora

Salgo sull’unico vagoncino “old style” in servizio (costruito dalla Piaggio nel 1929) e mi guardo intorno: dapprima il posto di guida con i comandi a leva e le manopole metalliche. Poi osservo gli interni di legno stile vecchio West. Una meraviglia!

In realtà sarebbe possibile far svolgere il servizio anche a due vetture allo stesso tempo grazie alla presenza di uno scambio, posto poco oltre la stazione di Via Bari.

A bordo della vettura, è presente un vero e proprio macchinista, perché gli autisti, per poterla azionare, hanno bisogno di una abilitazione rilasciata direttamente dalle autorità ferroviarie.

Interni del vagoncino

La cremagliera è tornata in funzione nel 2013, tutta pimpante e scricchiolante a ogni curva e a ogni scossa, dopo un profondo restyling e consente agli abitanti di “scalare” la collina attraverso le sei fermate in cui si articola il tracciato.

Il vagoncino rosso arranca lento e apre panorami contrastanti: se mi volto indietro vedo il mare, ai lati la murata delle case popolari che hanno conquistato la collina negli anni del boom economico. Poi si apre verso il verde intenso delle colline sul cui crinale svettano i forti e le mura del ’600. Che dire? Uno spettacolo!

Capolinea a Granarolo

Alla fine appare la stazioncina a monte (in parziale ristrutturazione; per questo il vagoncino si ferma qualche metro prima) in stile chalet di montagna che, nonostante tutto, non sfigura nel paesaggio che lo circonda.

Più in alto svetta il campanile della chiesa dell’Assunta di Granarolo, che non visiterò perché il mio “piano di volo” prevede solo discese e non salite.

 

 

(Continua…)

 

 

Ultimo trampolino verso la città

Nuovamente alla stazione spaziale, cioè al capolinea del razzo rosso targato AMT (con le telecamere che ci sono, temo di essere segnalato per vagabondaggio ?).

La direzione è ancora quella verso Villa Quartara.

Passo di fronte alle salite Cavallo e Bachernia senza più imboccarle e arrivo all’incrocio con Via Domenico Chiodo.

E’ un incrocio pericoloso tanto se si è a piedi quanto, soprattutto, se si è in auto o moto. Mi dà sempre un po’ di apprensione.

Superatolo, proseguo lungo la discesa alberata fino al convento dei Cappuccini dove, sulla destra, mi imbuco in Salita Superiore San Rocchino.

Salita Superiore San Rocchino

Imbocco di Salita Superiore San Rocchino

Sappiatelo: ci vogliono gambe forti perché non è una discesa qualunque.

All’inizio presenta le caratteristiche canoniche che ormai avete imparato a riconoscere: uno stretto corridoio di mattoni rossi con il porto sullo sfondo.

La pavimentazione, però, rispetto a quella incontrata nel mio vagabondare, si presenta differente: si biforca in pari uguali.

A ricordarci che non si tratta di una discesa con la quale bisogna scherzare (tipo la Streif di Kitzbühel), il corrimano è presente su entrambi i lati.

Ad un certo punto, sulla sinistra, appare improvvisamente un ospizio per anziani: Villa San Pietro, con la sua Madonnetta sopra la porta.

Il primo pensiero che mi è venuto è stato per gli ospiti: li hanno in qualche modo “catafottuti” (cit. Camilleri) fin qui dove, a causa delle ingiurie degli anni, non hanno più la possibilità di fuggire né in salita né in discesa. 

La pavimentazione, dopo alcuni tornanti, presenta una serie numerosa di scalini, fino a uno slargo sulla strada, dove appaiono le prime auto.

Incrocio con Vico Barnabiti

Siamo all’incrocio con Vico Barnabiti, annunciato da una strana torre con edicola votiva inclusa, che dopo una prima parte piuttosto anonima avvolge interamente il perimetro dell’Ospedale Evangelico fino a sbucare in Corso Solferino proprio di fronte alla Chiesa di San Bartolomeo degli Armeni.

Proseguendo dritti per concludere la discesa di Salita Superiore San Rocchino, arriviamo sempre in Corso Solferino, di fronte a un chiosco-bar.

Salita Inferiore San Rocchino

Attraversata la strada, per raggiungere la parte inferiore della crêuza, occorre passare in Passo dell’Acquidotto (con la “i”, mi raccomando).

Qui si possono scorgere le tracce dell’Acquedotto Storico Genovese che dalla Presa di Bargagli arrivava fino al porto e alla Ripa (il Guidebook del percorso fino a Via Burlando lo trovate qui).

Le scorgiamo nei lastroni di pietra di Luserna che costituiscono la pavimentazione; un altro tratto di acquedotto è, ad esempio, il marciapiede di Corso Solferino.

Mi immagino quanto bella dovesse essere questa parte dell’odierna Castelletto fino a metà del XIX secolo: campagna, poche casupole rurali, boschi, ruscelli (poi tombinati, con le conseguenze che, ahimè, conosciamo!).

Scendendo per la crêuza non si può fare a meno di riflettere sulle sovrapposizioni architettoniche, sociali e culturali che hanno dato vita a questa parte di città. Infatti, a poca distanza troviamo: la Sinagoga, l’Ospedale Evangelico, la Chiesa di San Bartolomeo degli Armeni, case popolari e dimore più lussuose.

Salita Inferiore San Rocchino è un volo che conduce fino al centro più trafficato della città, pur rimanendone totalmente al di fuori: è questa la sua “magia”.

Maldestro tentativo di selfie

Sulla destra ho incontrato un portone verde scuro con i pomelli così lucidi che i viandanti possono vedersi riflessi. Ho colto al volo l’occasione per farmi una specie di selfie (sicuramente voi ne farete di migliori!). 

Subito dopo, la crêuza introduce i curiosi in un mondo di cortili segreti da cui è possibile scorgere particolari sorprendenti!

In un battibaleno si arriva all’innesto con Passo Palestro e il rush finale ci conduce all’intersezione tra Via Assarotti e Piazza Marsala.

 

(Continua…)

 

 

Un punto di osservazione diverso

Ritornato su al Righi con l’ennesimo viaggio sul razzo rosso, questa volta decido di affacciarmi dall’altro lato della strada. E’ quello che getta lo sguardo verso la Val Bisagno: sulla città dei morti più importante di Genova che è anche uno dei cimiteri monumentali più importanti d’Europa; sul torrente Bisagno, dall’aspetto un po’ lugubre; sullo stadio Luigi Ferraris ❤️? (nessuno è perfetto ?); sull’orrenda ma affascinante modernità del “Biscione”.

Il “Castel Gandolfo” genovese

Mi tengo sulla destra, facendo attenzione a non essere “stirato senza appretto” dalle rare automobili che passano.

Ridiscendo per qualche centinaio di metri Via Mura delle Chiappe e, prima che inizino le Mura di Sant’Erasmo, la prima via di fuga verso il centro città mi è offerta da una crêuza sulla destra.

Villa Quartara e imbocco di Salita Cavallo

Facciata bianca e nera ormai sbiadita, torre a dominare la valle, Villa Quartara è una delle più belle e dimenticate nobili dimore del Righi. Il cardinale Giuseppe Siri ne aveva fatto la sua reggia, il suo ritiro. Dopo Siri la villa fu ancora frequentata di tanto in tanto dal cardinale Giovanni Canestri, Tettamanzi invece la snobbò.

Non so se gli altri arcivescovi di Genova l’abbiano frequentata, ma non mi sembra poi così interessante saperlo.

Macabri pensieri si affacciano

Imbocco quindi Salita Emanuele Cavallo, che forse qualcuno di voi (io no, non lo sapevo proprio) la conosce con il macabro “nickname” di “Montata dell’Agonia” perché da qui salivano i condannati a morte (per impiccagione) diretti alla forca posizionata sulle mura del Castellaccio. .

La funicolare non c’era ancora… quindi si andava a piedi.

Belin, che sensibilità i legislatori genovesi del tempo: forca con vista panoramica!

La crêuza ha tutti gli elementi “canonici”: pendenza, incastro di mattoni rossi, ciottoli ai lati, cocci di bottiglia sui muri perimetrali, edicole votive…

Scendo, stando attento a non imbelinarmi scivolando sui mattoni viscidi (sono andato sabato e durante il weekend è piovuto), fino all’incrocio con Salita Accinelli.

Il macabro incrocio

In questo punto i Confratelli della Misericordia, che portavano a spalle i cadaveri dei giustiziati, proseguivano a destra lungo quella che veniva chiamata “Salita della Morte”. Il corteo che saliva non doveva, nella parte superiore, incrociare quello in discesa: una sorta di “senso unico alternato”.

Però, per quanto macabri, i nickname delle due crêuze erano logici e pertinenti.

Al bivio, qualsiasi scelta va bene: entrambe planano in via Lorenzo Costa prima di proseguire verso la città. Io le ho percorse tutte e due in tempi diversi: Salita Cavallo è più ripida, mentre Salita Accinelli è meno pendente.

Salita Bachernia

La seconda via di fuga percorrendo le Mura di Sant’Erasmo, oltre Villa Quartara, è rappresentata dalla sorprendente Salita Bachernia.

Procede per gradi, in maniera sinuosa e mai uguale. I mattoni si alternano alle pietre e agli scalini; la viabilità urbana (una per tutte: via Domenico Chiodo) incrocia spesso le crêuze che scendono a (o salgono da) Castelletto, imponendo improvvisi cambi di rotta.

Niente male, eh?

Prima di proseguire la discesa vale senz’altro la pena di fermarsi qui a contemplare il panorama. Il tratto seguente, anticipato da alcuni gradini è, a suo modo, affascinante: ancora una volta i tratti “canonici” delle crêuze sono rispettati e il disturbo delle costruzioni più moderne non è così fastidioso come in altre discese (o salite). Con mia “viva e vibrante soddisfazione” (cit. Crozza/Napolitano) mi sono sentito un po’ più isolato e lontano dalla frenetica vita urbana.

 

Chiesa di San Paolo

Ad un tratto, con un vero e proprio colpo di scena, mi è apparsa la Chiesa di San Paolo. E’ curiosa sia per le dimensioni, incastonata com’è in un dedalo di strade strette e slarghi privi di brio, sia per la colorazione della facciata a bande rosse e bianche (chissà poi perché?).

Riprendo la discesa verso la parte inferiore della crêuza, che è ripida, veloce, insidiosa.

Piazza Sant’Anna

Percorro gli ultimi metri con circospezione e, alla fine di questa sorta di toboga, mi ritrovo in Piazza Sant’Anna, con la sua chiesa cinquecentesca, la farmacia gestita dai frati carmelitani (bottega storica del Comune di Genova) e una biblioteca che, senza essere così monumentale, tuttavia ci riporta istantaneamente al fascino di quella del “Nome della Rosa”.

 

(Continua…)

 

 

Perché Righi?

Confesso: mi era completamente ignoto.

Sarà perché ho sempre conosciuto la località con questo nome.

Poi, mentre attendevo l’arrivo delle cabine della funicolare, mi sono soffermato a leggere i pannelli che spiegano la sua storia.

E tutto è diventato più chiaro.

Dunque, correva l’anno 1871 quando a Lucerna, in Svizzera, Franz Josef Bucher (chissà se i cavalli nitrivano quando si faceva il suo nome? ?) inaugurava la cremagliera di Vitznau, l’impianto che collegava la città al monte Rigi e all’albergo che questo imprenditore svizzero aveva da poco costruito.

Una ventina di anni dopo Bucher arrivò in visita nella nostra città, salì sulla collina del Castellaccio ed ebbe l’illuminazione: perché non costruire anche a Genova un impianto simile a quello di Vitznau, che la collegasse alla alture?

La risposta pare sia stata: “SI…PUO’…FAREEE!”. ??

Quindi nel 1897 il Comune di Genova inaugurava la sua prima funicolare, che collegava Largo Zecca (dove alla fine dell’800 si fabbricavano le palanche) alla cima di un monte che, proprio per la somiglianza con il Rigi svizzero, venne ribattezzato “Righi”, che altro non è se non la pronuncia tedesca di Rigi.

Prima parte della discesa

Per comodità, perché è subito a destra dell’uscita della funicolare, inizio da Salita Superiore San Simone.

L’ho sempre intravista, perché quando decido di fare allenamento da queste parti, posteggio in Largo Caproni: mi ha sempre incuriosito incutendomi però un certo timore.

Adesso è giunta l’ora di buttare il cuore oltre l’ostacolo e fare come gli anatroccoli al primo volo: buttarsi giù senza pensarci troppo.

All’inizio della discesa

Pochi passi e subito la mia attenzione è colpita da un intarsio di mattonelle blu che introduce ad una discesa ripidissima (attenzione, perché mattoni e ciottoli, dopo un acquazzone o con l’umidità dovuta al vento di mare sono scivolosissimi e il rischio di atterrare bruscamente col fondoschiena è molto più che reale!).

Alzo lo sguardo e vedo il porto: apparentemente è vicino, in realtà separato da un numero indefinito di mattoni rossi incastrati fra loro.

 

C’era una volta l’Hotel Righi

Mi volto dal lato opposto e noto una cupola a dir poco originale: è quella dell’ex “Hotel Ristorante Righi”, prestigioso albergo di fine ‘800. Doveva essere un posto presumibilmente molto à la page, frequentato da gente chic. Oggi è un’esclusiva dimora privata.

Inizia la discesa: porticine di legno scolorito o di metallo arrugginito fanno da argine a mondi disabitati.

Seconda parte della discesa

Arrivo in Via Marco Preve, la supero e la discesa prosegue ancora più ripida, sinuosa, suggestiva fino ad arrivare alla stazione di San Nicola e all’omonima chiesa.

Torno verso levante su Corso Firenze per cercare la parte inferiore di Salita San Simone. La parte alta di Salita San Nicolò la rimando ad un altro volo…

La creuza dark

Poche decine di metri e, sulla destra, incrocio la crêuza che cerco.

E’ la più “dark” tra quelle che conosco: uno scivolo di mattoni proteso verso un edificio spettrale con tanto di torre merlata e finestra con grate.

La mattonata s’innesta in Salita San Nicolò e prosegue tra ruderi, inferriate, arcate che non conducono da nessuna parte, fino all’Albergo dei Poveri: quello che era il “santuario dei misci” (=senza un soldo, in questo caso anche senza fissa dimora) più grande del mondo.

Poco prima, sulla destra, un’edicola che raffigura l’apparizione delle Madonna della Guardia e sulla sinistra una sorta di castelletto merlato.

Prendendo sulla sinistra Via Carlo Pastorino e, successivamente, scendendo in Corso Carbonara sul marciapiede di sinistra, si raggiunge il cancello di una villa e ci appare il varco di Salita San Bartolomeo del Carmine.

Il quartiere del Carmine

Erano anni che non passavo più di qui.

La percorrevo quando, dopo aver trovato parcheggio “free” (allora le zone blu erano relativamente poche), ritornavo verso il centro cittadino.

Piazzetta e Chiesa

Sul filo dei ricordi non l’ho percorsa per intero, ma mi sono fatto rapire dal varco che si apre sulla sinistra e che introduce ad un gioiello poco conosciuto da “locals” e “foresti”: piazzetta dell’Olivella e Chiesa di San Bartolomeo.

Piazzetta della Giuggiola

Sempre più curioso e affascinato ho proseguito verso Vico della Giuggiola, percorrendolo tutto per arrivare alla piazzetta omonima: altra meraviglia del Carmine!

Non si può non rimanere a bocca aperta davanti al trionfo di arcate, scalette, anfratti misteriosi e pavimentazione di un tempo che fu.

Poi sono sceso verso la città passando in Vico del Cioccolatte, sino a lambire Vico della Fragola e Vico dello Zucchero: la parte dolce del quartiere.

Fuori dal Carmine, incanto e dolcezza svaniscono istantaneamente: il frastuono del traffico è la colonna sonora che mi spinge a riprendere la funicolare per fuggire verso un’altra discesa.

 

(Continua…)

 

 

Percorso zen

Domenica ho deciso di andare per crêuze (o crose) e funicolari, lasciando libero spazio alla curiosità, scattando ogni tanto una foto e facendo ogni volta un passettino avanti nella conoscenza di Genova.

Un percorso quasi zen. Una sorta di terapia rigenerante.

E ho deciso di farlo in un modo originale (almeno per me, che mi diverto soprattutto quando la strada sale, magari ripida): camminando esclusivamente in discesa, spalle ai monti e volto al mare, con il porto e la Lanterna in lontananza.

Le crêuze

Salita Superiore San Simone

Eh, belìn! Adesso si fa dura: come si racconta a un “foresto” che cosa sono le crêuze?

La spiegazione “ufficiale” direbbe che si tratta di antiche vie in salita che collegano il centro storico genovese alla parte alta della città, raggiungendo infine le mura.

Molto spesso presentano mattoni rossi al centro (pensate per i viandanti) e ciottoli ai lati (per offrire maggiore resistenza agli zoccoli degli animali da soma).

Corrono attraverso muri in pietra che, sormontati da cocci aguzzi di bottiglia, delimitano le proprietà e custodiscono gelosamente qualsiasi cosa esista o accada oltre il loro profilo.

Scorcio di Salita Superiore San Simone

“Di monte” e “di mare”

Se le percorriamo in salita, proiettati verso nuovi universi, diventano “di monte”; mentre se le usiamo a mo’ di trampolino per arrivare al filo di costa diventano “di mare”. Queste ultime sono diventate famose grazie a Faber.

In un passato più o meno lontano furono arterie logistiche di importanza notevole: servirono soprattutto per traghettare uomini e merci verso (e da) la pianura padana. Ma le crêuze sono soprattutto pendenza, aria.

Il ritmo costante in salita (per non scoppiare dopo pochi metri) e quello di un passo leggero in discesa (le ginocchia ringrazieranno).

Sono:

  • gradini, tanti, a non finire.
  • sole a picco e un muro che fa ombra.
  • silenzio, luce.

Arrivare in cima è sempre una conquista; ma anche arrivare in fondo senza ruzzolare!

Quindi avrete capito che c’è un solo modo di raccontare una crêuza e le emozioni che sprigiona: percorrendola passo dopo passo.

In partenza verso orizzonti sconosciuti… Ma il pilota è tranquillo.

La funicolare Zecca-Righi

Collega il centro città con il Parco delle Mura. Si sale con pendenze notevoli (media, circa il 20%; massima, circa il 35%) lungo strette gallerie: un vero e proprio viaggio iniziatico verso dimensioni differenti.

Cabine rosse. Le porte si aprono e…”Welcome on board!”

Si parte. Sembra di stare su un razzo: “Houston! Houston!…”

No, non ci sono problemi (almeno questa volta, benché sovente vada in tilt).

Le gallerie sono scavate nella roccia: lo spazio tra le cabine e le pareti è così poco, che al passaggio si potrebbe sfregare un fiammifero e accenderlo istantaneamente.

Salendo la prima fermata porta il nome di un santo: Nicola, che come primo miracolo sdoppia i binari per consentire l’incrocio delle cabine. Non male!

Poi, giardini appesi di rose, biancheria stesa e limoni.

Dopo circa un quarto d’ora si raggiunge la stazione a monte, al Righi, affacciata su uno slargo dedicato a Giorgio Caproni.

E a chi se non a lui che, proprio perché “foresto” (era di Livorno), è stato affascinato dalla verticalità della mia bellissima città. Per gli abitanti, invece, la verticalità è sempre stata una condizione necessaria.

Le frecce dicono che da qui partono i sentieri per i forti che in epoche passate hanno difeso la Superba (per raggiungerli quasi tutti potete scaricare, nella sezione “Intorno a Genova”, il Guidebook n° 2).

Ora non mi resta che decidere quale crêuza imboccare per scendere e… non c’è che l’imbarazzo della scelta!

(Continua…)

 

 

Attenzione! Può creare dipendenza

Per chi come me va per bricchi (ma anche per i più sedentari), c’è un alimento che può essere in diversi momenti della giornata colazione (magari pucciata nel cappuccino o a rinforzo di un espresso), pranzo (liscia o in una delle sue varianti), merenda/spuntino/aperitivo (magari con salame e vino bianco in qualche locale dell’entroterra): è la FOCACCIA!

Ha sempre il suo perché

➡️ Con gli “occhi” detti anche “ombelichi”, “ombrisalli” in genovese, dove si raccolgono l’olio EVO e il sale della spennellata data prima dell’ultima lievitazione;

➡️  DEVE essere gustata “a rovescio” (rispetto a quanto vedo fare da quasi tutti): appoggiando, cioè, la parte con gli “ombrisalli” sulla lingua per lasciarsi accarezzare le papille gustative;

➡️ Indissolubilmente legata a Genova (infatti la sentiamo nostra) anche se, vi assicuro, sarebbe imperdonabile non assaporare anche le sue varianti, presenti in tutta la Liguria;

➡️  Che oltre che “a peso”, può essere acquistata secondo altre “unità di misura” più autenticamente locali:

  • sleppa (o slerfa) (che equivale a 150-200 g);
  • strisce (misura equivalente circa a 40-60 g);
  • ruota (in molti forni dell’entroterra savonese i testi di cottura erano e sono circolari di circa 30-40 cm di diametro, pertanto all’acquisto si può richiedere una ruota di focaccia o mezza ruota o un quartino o altra frazione).

(Photo credits: www.priano.info)

Focaccia di Voltri

Se avete intenzione di percorrere l’itinerario descritto nel Guidebook n° 3 nella zona del Beigua (Voltri-Monte Reixa)  è d’obbligo fermarsi a Voltri per gustare la variante locale della focaccia.

Dire focaccia e dire “focaccia di Voltri” significa parlare di due cose simili ma completamente differenti, pur contenendo la focaccia di Voltri gli stessi ingredienti della focaccia genovese classica. Quello che cambia sono le proporzioni, l’idratazione e la consistenza della pasta, ma soprattutto la tecnica di infornatura, azione fondamentale al fine di consentire la perfetta riuscita di questa particolare tipologia di focaccia.

Quello che contraddistingue la focaccia di Voltri è però il fatto che, una volta terminata la lievitazione, l’impasto va inserito in teglia e la parte superiore della focaccia e la teglia sono cosparse di farina di mais (la polenta, per intenderci).

Questa focaccia è sottile e croccante all’esterno ma al tempo stesso soffice al suo interno: slurp! ??

Consiglio finale ai non genovesi

Infine, un consiglio spassionato ai “foresti”.

Noi che abitiamo a Genova abbiamo un carattere difficile, teniamo molto alle nostre cose, siamo gelosi e orgogliosi: per questo, non chiamatela mai e poi mai “pizza bianca”!

Ci sono posti che vorremmo facessero da sfondo alle nostre narrazioni, ce ne sono altri che ne diventano straordinariamente i protagonisti. Il sentiero che da Saint-Martin Vésubie in Francia, appena di là dal confine, a Terme di Valdieri attraverso il Colle di Ciriegia è uno di quei posti capaci di suggerire una storia, ma su cui è inutile costruire qualsiasi tipo di trama perché la realtà è più forte di qualsiasi altro racconto.

Verso la Valle Gesso

Sono partito poco prima dell’alba alla volta della Valle Gesso. Sulla Sopraelevata osservo Genova nella sua austera bellezza e, mentre davanti agli occhi ho la luna piena che sta andando a riposare a ponente, nello specchietto retrovisore fanno capolino i primi bagliori dell’alba dietro il Monte di Portofino.

A quell’ora non c’è quasi nessuno in giro e in poco tempo raggiungo il casello di Genova Aeroporto. Solita sosta all’autogrill di Altare per divorare una caracolle (nome d’arte locale della girella) con crema e uvetta e sorseggiare un caffè: è l’abituale viatico alla giornata in montagna.

Riprendo il viaggio, adesso senza più soste, fino a Terme di Valdieri.

Il bello di essere disagiati

Pur avendone la possibilità, decido di non proseguire in auto verso Piano della Casa del Re. Ho voglia di camminare, di macinare chilometri e dislivello: ho voglia di respirare l’aria fresca del mattino nel bosco.

Accendo il GPS e m’incammino. Quasi senza accorgermene imposto un ritmo che a tratti mi fa venire il fiatone, ma non me ne curo e proseguo: da vero disagiato mentale ho l’obiettivo di percorrere i primi cinque chilometri più o meno in un’ora.

Supero il bivio per i laghi di Fremamorta, quello per il Rifugio Bozano e nel tempo impostomi raggiungo il Piano della Casa del Re.

Colle Ciriegia: sul filo della memoria

Qui mi soffermo a leggere il pannello sul ponte di legno che supera il torrente Gesso della Valletta, che descrive il motivo della mia escursione: ripercorrere una pagina di storia recente. Infatti, dal sentiero che da lì a poco avrei imboccato, “Tra l’8 e il 13 settembre 1943 scesero circa 200 ebrei al seguito dei militari sbandati della IV Armata dell’esercito italiano.

Provenivano dalle più diverse località dell’Europa (Polonia, Germania, Ungheria, Austria, Romania, Grecia, Turchia, Croazia, Russia…), che avevano dovuto abbandonare a causa della persecuzione antisemita. Il loro ultimo rifugio era stata la zona di occupazione italiana in Francia, confidando nel fatto che l’esercito italiano non aveva mai consegnato ai tedeschi gli ebrei delle zone di sua competenza.

Il bando del Comando tedesco

Dopo l’armistizio dell’8 settembre tra l’Italia e gli Alleati, i militari italiani si ritirarono attraversando le montagne, abbandonando i capisaldi sulla zona di confine. Gli ebrei li seguirono pensando di trovare in Italia un luogo protetto dalle persecuzioni razziali. Nelle stesse ore altri profughi ebrei, circa 600, imboccavano il sentiero che passa il confine al Colle di Finestra, scendendo a San Giacomo di Entracque.

Ma Cuneo era ancora occupata e un bando emanato dal comando tedesco ordinava l’arresto immediato di tutti gli stranieri che trovano nella zona. 349 ebrei sono rinchiusi nella ex caserma degli alpini di Borgo San Dalmazzo trasformata in campo di concentramento.”

 

La salita al colle è stata agevole, sebbene il vallone attraversato risulti assai selvaggio e poco frequentato (infatti, a salire c’ero solo io ?), interamente coperto da massi e detriti.

La targa sulla parete della casermetta

Sul colle i ruderi della casermetta a presidio del valico e, sul versante francese, in lontananza fa capolino un bunker.

Ridiscendo il sentiero pensando alle speranze che nutrivano quei poveri cristi mentre, chissà con quale fatica, superavano i sassi e i detriti.

Raggiungo infine Terme di Valdieri, mangio qualcosa e mi rimetto in viaggio verso casa.

 

Ci sono luoghi che la storia la raccontano.

Ci sarò passato accanto decine di volte per raggiungere le mie amate montagne, guardandolo distrattamente pur sapendo cosa rappresenti.

Ma oggi no. Oggi è impossibile far finta di niente.

E così decido di fermarmi: l’impatto è forte.

Davanti a me la ricostruzione di quello che avevo letto nel pannello: “Un paio di mesi dopo 329 di loro sono condotti alla stazione ferroviaria, rinchiusi in carri bestiame e trasportati a Drancy da dove, con diversi convogli sono deportati ad Auschwitz. Soltanto 12 di loro sono sopravvissuti”

Il Memoriale della Deportazione a Borgo San Dalmazzo

I nomi di queste persone stanno, tutti in fila come allora, sul piazzale che li vide partire per l’ultimo viaggio dopo anni di persecuzioni, violenze, umiliazioni. 

Il nome di chi è tornato è in piedi. I nomi sono accostati tra loro secondo i legami familiari, perché fu così che partirono sui vagoni, stretti l’uno all’altro nel tentativo di rassicurarsi al momento di affrontare ancora una volta l’ignoto.

Un luogo che merita rispetto, per non dimenticare i tristi errori del passato.

 

Premessa

Palina all’incrocio

Questa volta, la molla che mi ha portato in montagna è stata la curiosità per alcune storie e leggende che riguardano i posti che sarei andato a vedere e dove non ero mai stato: il lago del Vei del Bouc e il passo di Monte Carboné.

Vi ricorderete certamente la discussione tra i due Gianfranco che coabitano in me al bivio del Gias Sottano del Vei del Bouc, durante l’escursione di domenica scorsa. Quindi, sabato sono ritornato sul luogo del delitto, pur non avendo commesso nessun crimine ??

E questa volta ho deciso di assecondare il Gianfranco, per così dire, più ragionevole. ??

Verso il Lago del Vei del Bouc

Dopo aver avviato il GPS sono partito dalla palina all’ingresso del parcheggio e, dopo avere attraversato il ponte, mi sono diretto verso le ex palazzine reali. Ho fatto rifornimento d’acqua presso la fontana che si trova tra esse e di buon passo (almeno all’inizio) ho risalito la carrareccia che mi ha portato nell’ampio Vallone di Moncolomb. 

Ma quanto è bello?

Ogni volta che, uscendo dal bosco, vedo le cime dei 3.000 più meridionali delle Alpi, mi si apre il cuore! ?

Verso i tre quarti del vallone ho raggiunto il sentiero che mi interessava, ossia quello che va in direzione del lago del Vei del Bouc. Il sentiero inizialmente è bello e procede su erba, poi entra per un bel tratto in un boschetto di faggi per uscire poi allo scoperto su un grande crinale di erba e pietre. Attraversa un rio e poi, con lunghi e numerosi tornanti che sembrano non prendere mai quota (ma quanti sono?), sale in direzione dell’emissario del lago del Vei del Bouc.

Ecco un percorso di allenamento per gli amici trail runner

Volendo vedere il lato positivo della cosa, il sentiero (a tratti rifatto) permette di impostare un passo regolare e (relativamente) poca (forse sarebbe meglio dire “meno”) fatica.  Secondo me, percorrendolo almeno un paio di volte A/R può essere un ottimo percorso di allenamento per chi fa trail running(in effetti, domenica scorsa, al bivio, ho incrociato una runner che scendeva dal lago correndo con disarmante facilità) ?

In prossimità del lago il sentiero diventa meno ripido e a un certo punto incrocia, sulla destra, il ponticello in legno (senza sponde) che conduce alla riva del lago (2.054 m). 

Ho fatto una breve deviazione per ammirare il lago. Questo è quello che si potrebbe definire un luogo dell’anima, solitario e defilato rispetto ai più frequentati itinerari escursionistici. Ne valeva proprio la pena!

Il lago del Vei del Bouc, salendo verso il Passo di Monte Carboné

La leggenda del lago

Al lago è associata la leggenda del Vecchio (Vei, in dialetto locale) e del caprone (Bouc), che narra di un vecchio saggio ritiratosi a vivere quassù, in compagnia di un caprone, dopo un’agiata vita in città.

Morto l’animale, unico amico e conforto, poco dopo si spense anche il vecchio. Il torrente Gesso, impietosito dai due corpi inanimati, li ricoprì con le sue acque dando origine al lago.

C’è da dire che, a onore del vero, fece un bel lavoro: il lago del Vei del Bouc è uno dei più estesi della Valle Gesso di Entracque, con una lunghezza di oltre 450 metri ed una larghezza massima di 200 metri.

(Fonte: “Laghi, cascate e altre meraviglie. 99 escursioni dalla Liguria al Monviso” – Andrea Parodi)

Verso il Passo di Monte Carboné

In realtà, più che il lago del Vei del Bouc, il motivo che mi ha spinto quassù è un altro.

Dopo averne letto in rete, volevo vedere di persona il lago Carboné, dove, in periodi diversi, si sono schiantati due aerei Dakota C-47 dell’ U.S. Air Force.

Quindi, giunto nuovamente al ponte di legno, lo attraverso e mi dirigo alla vicina palina con le indicazioni per il Passo del Monte Carboné.

Tanto è stata agevole (per quanto monotona) la prima parte dell’escursione, tanto si è rivelato un esercizio di orientamento risalire il fianco della montagna. Il sentiero è dapprima inerbito (non ci passano molti escursionisti, evidentemente), ma con un po’ di attenzione non lo si perde mai. Successivamente, dopo l’incrocio per il Colle del Sabbione e il Colle del Vei del Bouc, attraversa una zona selvaggia, caratterizzata da vaste pietraie.

Sempre più in alto (ma senza la grappa: troppo caldo!)

Man mano che salivo il lago del Vei del Bouc si allontanava diventando sempre più piccolo.

Poi, arrivato a un colletto che divide il vallone della Roccia da quello della Valletta, non ho potuto fare a meno di fermarmi ad ammirare tutta la schiera delle vette delle Marittime, a partire dalla Regina, cioè l’Argentera. In primo piano, invece, la Maledia e Clapier.

Il lago della Roccia

Pian piano, dopo numerose svolte su sentiero, veramente senza pendenza e con larghi semicerchi per assecondare il terreno privo di difficoltà (quando veniva a caccia di stambecchi da queste parti, il re voleva fare poca fatica ?), sono sbucato in un’altra selletta dove alla mia sinistra, molto più in basso, mi è apparso il solitario e fuori mano lago della Roccia (almeno 200 metri più in basso).

Dopo aver attraversato un paio di lingue di neve che hanno resistito al caldo torrido di questo inizio di luglio ed essere sprofondato in una di esse fino al ginocchio in una posizione malagevole (ho dovuto scavare per liberare la caviglia), recuperato un assetto di marcia decente, in breve ho raggiunto il Passo del Monte Carboné, un intaglio nella roccia a 2.737 m (anche se la palina indica 2.800 m).

Il lago Carboné

Sul versante opposto, circa 200 metri sotto (ad occhio) mi è apparso il bel lago Carboné, ancora parzialmente ghiacciato.

Mi sarebbe piaciuto ridiscendere verso le sue sponde, ma tre escursionisti incontrati poco prima me lo hanno sconsigliato: loro si erano dovuti legare perché il terreno è franato e friabile.

Meglio non cercarsi rogne!

 

Una storia dimenticata

Dakota C-47

Domenica 24 ottobre 1954. Poco meno di due ore e il Cap Edward A. Manning avrebbe condotto il Dakota C-47, partito da Roma Ciampino alle 15:56, all’aeroporto di Lyon con cinque uomini di equipaggio e sedici passeggeri.

Il piano di volo redatto dal capitano era molto dettagliato, ma indicava erroneamente una quota di volo di 6000 piedi sino a Marsiglia ed una di 8000 piedi sino a Lyon.

Alle 16.28 l’aereo raggiunse il checkpoint di Orbetello a 8000 piedi; all’altezza di Bastia il controllo aereo passò da Roma a Marsiglia che avvertì il pilota del maltempo che avrebbe incontrato lungo la sua rotta, consigliandogli di scendere all’aeroporto di Marignane.

Dal Dakota C-47A non partì mai alcuna risposta

Il Dakota C-47A venne localizzato la mattina del 29 ottobre.

(Fonte: “Ali spezzate – Incidenti aerei sulle Alpi sud-occidentali” a cura di Sergio Costagli e Gerardo Unia – Nerosubianco edizioni)

Tutti i salmi finiscono in Gloria

Sbocconcellata una barretta (durante la salita avevo assunto un gel), rimesso lo zaino in spalla, ho ripercorso a ritroso la strada fatta all’andata. Senza soste, se non per bere dai ruscelli e per proteggere smartphone e videocamera dalla pioggia che stava per sopraggiungere e per ammirare un camoscio che mi si è parato di fronte sul sentiero, sono ridisceso il più velocemente possibile, benché intontito dai tanterrimi tornanti, a San Giacomo di Entracque.

Il mio perenne stato di disagio, mi aveva imposto un tempo di percorrenza (2h45’) che avrei dovuto assolutamente rispettare!?

Obiettivo raggiunto anche questa volta, con svariati minuti di anticipo!

Dopo essermi cambiato, ho dato volentieri il mio contributo all’economia di questa valle: una birra media alla spina al Rifugio Monte Gelas. ??

Avvicinamento

Che notte, quella notte! No, non sono state le zanzare a disturbarmi e non ho dovuto usare “Kriss il zanzariere” (pubblicità dei primi anni ’70), bensì il caldo.

Nel dormiveglia ho realizzato che se avessi voluto sopravvivere alla domenica tappato in casa con ventilatore a palla, sarei dovuto scappare in montagna e avrei dovuto decidere la meta.

Non ci ho messo poi molto: niente Val Grana perché la strada era chiusa per la Granfondo di ciclismo “Fausto Coppi” ma Valle Gesso, nel versante di S. Giacomo di Entracque.

⏰ Bip! Bip! Bip! La sveglia mi ricorda che è ora di alzarsi.

Abluzioni, colazione, zaino, borsa con indumenti di ricambio e cazzatine varie.

Saluto Anna che si raccomanda di farle sapere via WhatsApp dove ho deciso di dirigermi (infatti, come nella migliore tradizione, non ho ancora le idee chiare) ??.

Il viaggio procede senza intoppi. Sosta all’autogrill di Altare e nuova colazione. Di nuovo sulla A6 fino all’innesto con la Asti-Cuneo. Autostrada deserta fino a Cuneo.

Borgo San Dalmazzo, Valdieri, svolta per Entracque e quindi risalita, costeggiando il lago artificiale della Piastra, fino a S. Giacomo di Entracque.

Ultimati i preparativi ho chiuso l’auto e sono andato a riempire le borracce.

Lotta feroce con un tappo che non ne vuole sapere di girare nel giusto verso e conseguente perdita di tempo.

Mi sono incamminato alle 10, minuto più minuto meno, verso il Vallone di Moncolomb.

Verso la meta: sì ma quale?

Con passo spedito (per quanto possibile: sono un bradipo) ho raggiunto la fontana dietro le ex case di caccia e ho bevuto avidamente l’acqua fredda, quasi gelida.

La strada è larga, agevole: invoglia a correre (se solo potessi!) fino all’incrocio con il sentiero che conduce al Lago del Vei del Bouc.

ALT! ?Adesso avrei dovuto decidere dove andare.

Il Gianfranco razionale mi ha detto in un orecchio: sei poco allenato, soprattutto sul dislivello; inizia a fare caldo e più tardi sarà bollente; è un posto dove non sei ancora stato, hai visto dei video su Youtube e ti è piaciuto ; se poi ne avrai voglia e forza, potrai ancora salire. Vai al lago.

Quell’altro Gianfranco, a mo’ di diavoletto ?, invece mi ha sussurrato nell’altro orecchio: è tutto vero.

Però considera: se mai inizi a fare percorsi duri, mai sarai pronto. Poi, dai, solo meno di due ore per raggiungere la meta: che belin di allenamento è? Non sei mica zoppo!

Poi pensa: da questa parte non ci passano che poche persone mentre dall’altra puoi incontrare altri escursionisti e raggiungere il rifugio e…la BIRRA nel microbirrificio più alto d’Italia e forse d’Europa!

Non occorre aggiungere quale dei due Gianfranco abbia avuto la meglio!

Ho voluto la bicicletta…

Ho iniziato a salire con passo regolare ma, man mano che salivo sono venute fuori le conseguenze di un allenamento approssimativo: quadricipiti tendenti al legnoso (al marmoreo per fortuna no) e fiato tendente al corto. Aggiungeteci il caldo “fotonico” e l’assenza quasi totale di alberi e avete un’idea del mio stato fisico.

Però…la birra “Pagarina” di Aladar, il gestore del Rifugio Federici-Marchesini, più conosciuto come Pagarì, è una molla così potente che mi ha fatto stringere i denti. Ho rallentato il passo, mi sono concesso qualche sosta di più (non ero mica in gara, ecchecaspita!) e, alla fine, ho raggiunto la meta ai piedi dell’imponente parete della cima della Maledia e sotto le cime del Peirabroc e del Caïre del Muraion, dopo avere attraversato anche due lingue di neve.

L’agognato premio

Sono entrato disfatto dal caldo e la prima invocazione a Aladar (Andrea Pittavino) è stata…BIRRA!

Poi ho chiesto la linea per telefonare alla mia dolce metà, che non sapeva ancora dove io fossi finito.

Mi ha stappato una “Pagarina” che credo fosse “ambrata” (non ero lucido, né per chiederlo né per capirlo). ???

L’ho bevuta subito, con avidità.

La quantità, né troppa né troppo poca che è l’avvio ideale.

Il benessere immediato, sottolineato da un sospiro e da un silenzio altrettanto eloquente.

Ho riappoggiato sul tavolo il piccolo bicchiere, l’ho allontanato, l’ho riavvicinato e l’ho riempito nuovamente più e più volte: il giusto premio alla mia fatica!

Ne avrei voluto ordinare subito un’altra, ma ho avuto paura di obnubilarmi: avevo ancora più di 11 chilometri di discesa.

Cliccando sul link, maggiori info sul birrificio e sulla sua produzione. 

Ho pranzato con un piatto di penne integrali “bio” (attento ai prodotti che utilizza per pranzi e cene, Aladar ha deciso di servire solamente cibi equosolidali, dal cacao al caffè e il rifugio ha la certificazione europea Ecolabel), ho preso il caffè mentre chiedevo a Aladar di rabboccarmi le borracce (anche lui si è picchiato con lo stesso tappo).

Verso valle

La nebbia che avvolgeva il rifugio mi suggeriva di stare con gli occhi bene aperti, durante la discesa. Primo nevaio: ok. Secondo nevaio: ancora in piedi.

Poi, a breve distanza, due storte sulla stessa caviglia. Ecchecazzo!

Tuoni sotto la nebbia. Cercavo di capirne la direzione e intanto aumentavo il passo quasi senza accorgermene. Chissà perché, da sempre, quando c’è tempo tendente al piovoso (o piove), mi sento meglio e quasi corro. Boh!

Quasi a metà percorso mi ha beccato l’acquazzone. Avevo indossato il gilet antivento e con quello sono rimasto: non avevo freddo e non mi dava fastidio la pioggia.

Il pensiero, adesso, era rivolto agli “appoggi”: non volevo scivolare sulle pietre umide.

Ormai quasi arrivato alla passerella sul rio Pantacreus, ho sentito dei rumori alla mia sinistra: voltandomi ho visto un bell’esemplare di maschio di stambecco uscire da un macchione. Solo nel Parco delle Alpi Marittime si incontrano animali in libertà con tanta frequenza: impagabile!

Camminando spedito ho raggiunto la famiglia che era partita una mezz’oretta prima di me dal rifugio.

Non pioveva più.

Ora, il più era fatto: non restava che cercare di camminare il più velocemente possibile per stare entro le 2h30’ (sarò disadattato?). Ci sono riuscito.

Il pretesto per un’altra birra a Valdieri: questa volta Ichnusa. ?

Sabato scorso sono ritornato a Chiotti, borgata del Comune di Castelmagno (Cn) dove abbiamo una casetta, per verificare gli eventuali danni provocati più che dall’inverno (in realtà mite) dalla primavera (in realtà presentatasi in veste invernale).

Ho fatto una passeggiata fino al Santuario dove ho realizzato il video che trovate sulla pagina Facebook; sono tornato a casa scendendo in parte per il Cammino di San Magno a recuperare la mamma.

Poi alle 13:00 in punto il mio orologio biologico e la mia innata visione gastrica della vita mi hanno spinto alla ricerca di cibo.

Chiusa ormai da parecchio tempo la “Tana d’la marmota”, speravo davvero riaprisse un nuovo rifugio/ristoro.

C’è voluto un gruppo di ragazzi in gamba, simpatici, cordiali ma soprattutto molto coraggiosi a inaugurare, il 12 gennaio scorso il Rifugio escursionistico MARAMAN , poco sopra il Santuario di San Magno. Da qui è possibile partire per l’escursione fino al Monte Tibert (2.647 m.) 

Il locale è molto carino, l’accoglienza ottima. Notevoli le due vetrate con vista sulla parte alta della Valle Grana: abbiamo pranzato contemplando le vette circostanti.

La vista dalla vetrata, mentre si pappano cose buone…

Il menù è legato alla tradizione piemontese e ai prodotti locali a km 0.
Noi abbiamo gustato una buona polenta con lo spezzatino e un generoso bicchiere di rosso.
Anche le torte sono fatte rigorosamente da loro.
Il tutto a prezzi onestissimi!
Da sabato, poi, è possibile noleggiare una e-bike per raggiungere con meno fatica (non è che non se ne fa, eh!) il Colle Fauniera e la statua dedicata a Marco Pantani.
Complimenti ragazzi! Continuate così!

Dopo le esperienze nei trail e, soprattutto negli ultra trail, ha voluto realizzare un sogno particolare, non certamente l’unico: correre nel deserto.

Francesca Billi, per me semplicemente “WonderBilli”, oltre ad essere un’amica è una libera professionista, una moglie, una mamma (sappiamo bene cosa ciò voglia dire) è un’appassionata di tutto ciò che è attività outdoor. 

(Foto: Francesca Billi)

Dal 6 al 13 aprile scorso ha partecipato, terminandola, alla 34a Marathon des Sables (MdS – http://www.marathondessables.com), una gara di circa 240 km nel deserto marocchino.

E’ la gara che ha consacrato alla leggenda Marco Olmo, per intenderci.

La manifestazione dura una settimana, con sei frazioni e un giorno di riposo.

I partecipanti percorrono le tappe in completa autosufficienza alimentare; lungo il percorso c’è un ristoro ogni dieci chilometri, dove i partecipanti possono ritirare la razione personale di acqua giornaliera (nove litri).

Qualche numero per dare l’idea dell’impresa della mia amica: 160 donne da tutto il mondo hanno preso parte a questa edizione della MdS. Di queste solo tre italiane e tutte felicemente arrivate al traguardo.

Al suo ritorno le ho chiesto di raccontarmi le sue emozioni e il suo personalissimo “dietro le quinte” di un viaggio che, sicuramente, lascia il segno.

Più di una gara

La MdS: una gara o un viaggio?

La MdS è un viaggio: assolutamente! Dentro e fuori di sé. In cui ci si misura con le proprie fragilità; in cui ci si mette in gioco e occorre sapersela cavare in tutte quelle situazioni di difficoltà fisica o mentale che via via si presenteranno, che potranno essere tante e mutevoli.

Poi c’è la particolarità di una gara a tappe, che presenta aspetti che mai avevo affrontato: è tutto una novità. Sono partita però con l’entusiasmo e l’intima sensazione che sarebbe stato tutto bellissimo. Fortunatamente, poi, le aspettative sono state di gran lunga superate!

(Foto: Francesca Billi)

Cosa ti ha spinto a cimentarti in una gara così? (avevi un motivo/obiettivo preciso, un sogno, una battaglia/rivincita personale,…..)

Correre nel deserto è sempre stato il mio sogno, fin da quando ho iniziato a praticare il trail running nel 2013.

Come ti sei allenata?

Gli allenamenti sono stati particolari, perché essendo infortunata, il coach li ha modulati in funzione della patologia e sono consistiti soprattutto in sessioni di potenziamento muscolare, in particolare della schiena e delle gambe. Poi tante passeggiate a ritmo un po’ sostenuto con dislivello, sia per testare i materiali che , soprattutto, per abituarsi al peso dello zaino che in allenamento non ha mai superato i 6-7 kg. Portavo sulla schiena il peso della cultura classica: i dizionari di greco e latino dei miei figli.

I Materiali

Uno degli aspetti più importanti penso sia la preparazione dei materiali: come ti sei regolata?

L’organizzazione del materiale è fondamentale, essendo la MdS una gara in autosufficienza totale.

Uno degli aspetti più importanti è trovare il gusto equilibrio tra la completezza del materiale e il suo “peso”. Per trovarlo, ho dovuto reperire il materiale obbligatorio con il peso minore possibile.

Svelami il contenuto del tuo zaino e l’ordine in cui hai inserito i materiali

All’esterno ho messo il materassino e il sacco a pelo. All’interno tutto materiale medico-sanitario obbligatorio e no: kit dissenteria, kit vesciche, kit bendaggi. Poi qualche antinfiammatorio, qualora fosse stato proprio necessario. Nel marsupio davanti occhiali da sole, amminoacidi, sali, bussola e specchietto.

Un’altra componente che credo sia fondamentale è l’abbigliamento: come ti sei vestita?

Avevo una tenuta da gara composta da pantaloncini e t-shirt e tre bandane.

Una per la testa, che avevo cura di bagnare regolarmente; due che mettevo sotto gli spallacci dello zaino per alleviarne la frizione dovuta al peso. Avevo, ovviamente, un cambio per la sera, finita la gara. Calze, invece, ne avevo una pulita per tappa. I piedi sono troppo delicati.

Nel deserto il bucato asciuga in un’ora. Ho un bellissimo ricordo di queste maglie lavate alla bell’e meglio senza sapone, che sventolano dalle tende. Ancorate con le spille da balia.

I Piedi

Sicuramente, tra le parti del corpo più sollecitate dalla MdS ci sono i piedi: come hai combattuto vesciche e abrasioni?

Ho iniziato mesi prima la preparazione dei piedi con creme ammorbidenti e togliendo eventuali callosità. Durante la gara ho usato molto una crema all’ossido zinco. Ho avuto in unica vescica al terzo giorno: subito curata, non mi ha più dato problemi. Ho patito anche una vescica sulla mano, dovuta alla frizione dei bastoncini.

Il Cibo

(Foto: Francesca Billi)

Francesca, dimmi: hai portato nel deserto anche il pesto?

Magari! Ma non era proprio il caso.

Ogni mattina aprivo pacchetto del cibo. Facevo colazione con una barretta e del caffè solubile. Poi preparavo la razione per la gara. Mantenendo da parte quella per il fine gara e la cena. Durante la gara utilizzavo circa tre barrette e dei chomps: gel in caramelle. In pratica due gel. A fine gara subito una bustina di “recovery” (carboidrati, amminoacidi, sali) da diluire così mi reidratavo anche per bene e un’altra barretta. A cena, carne salada e due barrette.

La barretta del mattino era proteica; durante la gara a base di carboidrati; per reintegrare a fine gara e per cena, invece, era mista.

Non ho utilizzato liofilizzati per scelta.

Sicuramente, per le prossime esperienze di gare a tappe, porterò la bresaola sottovuoto. Anche per la MdS ci avevo pensato, ma poi non sono riuscita a organizzarmi.

Vita da gara

(Foto: Francesca Billi)

Il bivacco è un’esperienza a sé: come funziona?

L’organizzazione della MdS impegna circa 600 persone tra addetti propri e staff di supporto che gestiscono le 300 tende per i concorrenti, per l’organizzazione e quelle mediche (sono presenti 60 tra medici e paramedici), che ogni giorno sono montate, smontate, spostate e rimontate. Sono due i campi che si muovono a staffetta con i concorrenti: ogni mattina alle cinque, che tu stia dormendo o sia già sveglio, il campo è smontato e spostato all’arrivo della tappa successiva, dove è rimontato completamente. Tutto questo avviene per sette giorni senza l’ausilio di strade: è un vero campo nomade che si sposta in giro per il deserto.

La vita del campo e la parte più bella. Ci si sveglia insieme. Ci si prepara, si condividono il caffè e le barrette; le salviette; le emozioni, gli abbracci, i baci.

Nella nostra tenda eravamo in otto, lo spazio era davvero minimo, si viveva gomito a gomito e con i compagni: si è creato subito un legame strettissimo. Si diventa amici per la vita. Io ho incontrato Tea e Luigi e saremo legati a vita. Lo so.

Non c’è mai stato un accenno di attrito anche in situazioni difficili, eravamo tutti uniti e solidali per “sopravvivere” e arrivare in fondo. Durante la gara difficilmente incontravo i miei compagni: erano più veloci. Perciò ci si ritrovava sempre alla partenza e/o all’arrivo.

Si arrivava in tenda alla spicciolata. E non sai mai se qualcuno si è ritirato fino a che non finisce il tempo limite.

I componenti della nostra tenda sono tutti arrivati: tutti FINISHER della MdS 2019!

 

Come si sviluppa una giornata tipo?

È bella articolata! Nonostante la sveglia sia molto presto, il tempo prima della partenza non va sottovalutato perché ci sono tante cose da fare. Impacchettare tutto, rimetterlo nello zaino, fare colazione, lavarsi meglio che si può.

Poi arrivano gli addetti del campo e fanno il giro e scoperchiano tutte le tende. E che ci sia vento, sole caldo o freddo rimani lì senza un tetto e te la ridi perché non sai mai a quale tenda tocchi per primo. Poi c’è adunata per briefing e lo start.

La Nostalgia

(Foto: Francesca Billi)

Sei tornata anche tu con il “mal di deserto”?

Sono tornata, ma non penso che tornerò mai del tutto.

Tornare a casa è bello perché lì ci sono i tuoi affetti. Ma quello che ho lasciato nel deserto è veramente profondo. Un’esperienza che ti porta ad attraversare la tua anima e il tuo cuore.

Più che “mal di deserto”, direi meglio “mal di libertà assoluta”: stare sotto il cielo stellato con il naso all’insù, senza telefono senza social, senza niente: è stupendo!

Un momento di grande riflessione e crescita personale.

Ho scoperto che ci si può lavare benissimo con una bottiglia di acqua al giorno.

Che si può dormire per terra e svegliarsi con la sabbia tra i denti ed essere felici.

La felicità nell’essenzialità che però ti riporta a te stesso.

Ecco, tutto questo che ho provato a sintetizzare, mi fa dire che sicuramente la MdS è un’esperienza che vale la pena provare.

Sin dalla prima volta che ho avuto modo di provarli, ho avuto subito la sensazione che camminare in montagna con il supporto di questo tipo di bastoncino, per così dire “fuori dal gregge”, sarebbe stata tutta un’altra cosa.

Credetemi: questo articolo non ha intenti pubblicitari.

E’ stata la sperimentazione personale (dopo un periodo di scetticismo, misto a curiosità crescente), a convincermi della bontà e dell’affidabilità dei bastoncini N&WCurve.

Ben presto questi attrezzi sono diventati compagni insostituibili per ogni mia escursione.

Non voglio ripetermi: pertanto chi volesse maggiori info sui “pro” e “contro” dell’utilizzo dei bastoncini da trekking, può trovarle nella mia “personale” cassetta degli attrezzi, mentre qui potrà trovare maggiori info sui bastoncini che utilizzo attualmente.

L’equilibrio

Mi preme sottolineare però un aspetto, che non so se possa valere per tutti, ma che ho sperimentato personalmente. A lungo andare, abituatomi all’uso dei bastoncini (indipendentemente dal tipo) mi ha disabituato all’equilibrio che definirei “naturale”. O meglio: mi ha abituato ad un nuovo equilibrio che è quello dell’utilizzo di quattro arti portanti (gambe e braccia).

E quando, per un motivo qualsiasi, sono stato costretto a farne a meno, ho avuto la percezione di un minor senso dell’equilibrio.

Per questo, compatibilmente con il peso dello zaino e del tipo di terreno, cerco di alternare camminate “con” a quelle “senza” bastoncini.

Come utilizzare al meglio i bastoncini N&WCurve

Anzitutto voglio raccontarvi di come sia del tutto “naturale” adattarsi all’uso di questo tipo di bastoncini: perché rispetto ai tradizionali bastoncini da trekking si accordano alla biomeccanica del movimento e possono considerarsi un prolungamento artificiale degli arti superiori.

Come sapete, anche con quelli tradizionali una delle tecniche di progressione è quella del “passo alternato”. Si cammina muovendo alternativamente gambe e braccia: gamba destra e bastone sinistro, gamba sinistra e bastone destro.

Ci vuole un po’ di pratica, ma non è poi così difficile…

Orbene, nel passo alternato la differenza che più salta agli occhi è che le braccia sono più distese (flesse in modo naturale) e non piegate al gomito di circa 90°. Un modo di camminare che è del tutto uguale a quello che avremmo se non utilizzassimo i bastoncini: sciolto, biomeccanicamente “economico”, più rilassato e meno forzato.

Credetemi, se si percorrono tanti chilometri (come ad esempio in un thru-hike o in un ultratrail) l’efficacia del gesto fa sì che non si arrivi al termine con le spalle massacrate.

E l’efficacia è data dal fatto che si “spinge” con i grandi muscoli pettorali e dorsali, mantenendo le spalle relativamente “scariche”.

In salita avrete la sensazione di andare veramente a quattro zampe.

Le mani saranno proiettate sempre più avanti rispetto alla punta del bastone nel suo punto di appoggio, che è sempre tra i due piedi e in prossimità della proiezione a terra del baricentro del corpo.

Ma io non vi voglio vendere conoscenze tecniche che non ho: pertanto vi invito a vedere questi brevi video in cui Fulvio Chiocchetti, l’ideatore dei bastoncini, spiega tutto molto meglio di quanto potrei fare io:

 

Manutenzione dei bastoncini 

Infine due parole sulla manutenzione dei bastoncini (di qualunque tipo).

I bastoncini (specialmente quelli telescopici) vanno asciugati e puliti ad ogni fine escursione. Rimuovete perfettamente ogni traccia di polvere o fango facendo particolare attenzione agli snodi, da sempre il punto debole di questi attrezzi.

E voi li usate i bastoncini durante le vostre escursioni? Come vi trovate?

 

 

Quante volte ci siamo sentiti dire che dobbiamo apprezzare le piccole cose nella vita?

Ma anche io, come tanti, dimentico troppo spesso questo piccolo ma grande concetto!

Sì, la vita è una sola e dovrei (dovremmo), dedicare più tempo a quello che mi (ci) fa sentire davvero bene.

Io ad esempio, ma credo sia condizione ahimè comune, passo buona parte della giornata attaccato allo schermo di un portatile, tra le altre cose rispondendo alle molte email che intasano la mia casella di posta, magari tra una telefonata e l’altra.

Durante queste ore passate così, quando poi apro Facebook o magari Instagram mi soffermo a guardare con una (non) leggera invidia le immagini di quelle persone che sono là fuori, “per bricchi”, da soli. In me cresce sempre più una certa voglia di evadere.

La meta

Quante volte, attraversando la città verso levante ho notato la sua sagoma.

Quante volte ho visto foto scattate da amici che ne hanno fatto il loro terreno preferito di allenamento.

Ma io non c’ero mai stato.

Per pigrizia, forse. O per la comodità di raggiungere altri forti di Genova.

Ma non quel giorno. Per un giorno volevo che le cose andassero diversamente!

Le previsioni meteo non erano propriamente favorevoli, quel giorno. Prevedevano neve anche in città, ma io ero scettico.

Quindi mi sono messo al tavolo di lavoro come sempre, testa china e poca attenzione a quanto stava succedendo là fuori.

Ma dopo pranzo, mi accosto alla finestra e…sorpresa! Nevica davvero e fitto.

Targa sul frontale del forte

C’è la tempesta perfetta per… andare finalmente al Forte Richelieu!

Sono un lavoratore autonomo, lavoro prevalentemente a casa. Qualche volta questa condizione ha anche i suoi aspetti positivi: poter decidere all’improvviso di prendersi un pomeriggio di vacanza!

Una volta cambiato e indossate le scarpette da speed hiking, è come se fossi stato catapultato in un altro mondo.

Inizia l’avventura

Avvio il GPS sotto gli occhi stupiti di qualche rado passante (avrà fatto sicuramente la solita considerazione sul mio disagio mentale) e mi incammino verso la mia avventura!

Risalgo Corso Gastaldi mentre le auto prive di catene fanno fatica ad avanzare sullo strato di neve. Mi fermo sotto i portici per indossare i guanti perché ho già le mani intirizzite.

In Via San Martino il traffico è, se possibile, ancora più caotico, ma io avanzo leggero (si fa per dire) sulla neve non ancora calpestata, per non rischiare di scivolare.

Dopo qualche centinaio di metri, facendo lo slalom tra le auto incolonnate prendo Via di Chiappeto e qui iniziano i problemi: la primissima parte è in discesa ed è un’anticipazione di quello che troverò lungo la strada del ritorno. Non propriamente una passeggiata.

Crosa a me sconosciuta

Poi la mattonata innevata inizia a salire e la nevicata non accenna a smettere.

Verso l’ignoto: nel senso che io qui non ci sono mai passato nemmeno col sole.

Le nuvole sono basse, non si vede molto attorno. Io continuo a salire lungo quella che mi pare l’unica direzione possibile: copiando le impronte lasciate da qualche altro squinternato come me. Poi, ad un certo punto, le orme finiscono e rimango solo, immerso nel silenzio, in compagnia del mio respiro affannato e dei miei pensieri.

L’unico rumore è quello della neve che si rompe sotto il peso dei passi. Bellissimo!

Non sono solo

Un passo incerto, una roccia che non avevo intuito: scivolare è un attimo. Punto i bastoncini. Avanzo e mentre li sollevo per cercare un altro appoggio, mi accorgo di aver rotto il puntale di quello destro. E porca paletta!

Arrivo al Forte Richelieu

Così, adesso, mi trovo con un bastoncino che assomiglia a quello di Aigor. E mentre penso a come contattare Fulvio per farmi spedire le aste nuove, d’improvviso… Forte Richelieu Ululì.

Le nubi si erano un po’ diradate e adesso dalla sommità della collina potevo scorgere la città e potevo immaginare il rumore e il traffico congestionato per la neve.

Se ci ripenso che un’ora prima ero con gli occhi attaccati allo schermo del computer e adesso ero del tutto immerso nella natura, che bella sensazione!

Ero completamente assorto nei miei pensieri mentre cercavo di intuire una direzione per scendere, ma in realtà andando in senso opposto, che non mi ero accorto che c’era una persona dietro di me.

 

Mi volto stupito, ma contento di non essere solo.

Il giovanotto mi ha confessato di essere uscito per fare quattro passi sulla neve ma poi, avendomi visto salire verso il forte aveva deciso di raggiungermi. Altra piacevole sorpresa: era sardo come me!

Bene! Così adesso eravamo in due nel bosco, con la neve sopra le caviglie, senza avere un’idea della strada da seguire.

Volteggiare leggiadro, rischiando ad ogni passo

Abbiamo iniziato a scendere ad intuito. Abbiamo iniziato a chiacchierare, a parlare della nostra Isola e di quanto sia bella, soprattutto nell’interno. Poi, raggiunta la parte alta di Via Berghini è diventato tutto più semplice. La strada, dapprima sterrata, diventa cementata e quindi asfaltata.

Iniziamo a scendere stando attenti a camminare sulla neve non pestata per avere più presa. Seguiamo la strada asfaltata fino al Forte di Santa Tecla, quindi imbocchiamo una stradina stretta e ripida che, passando in mezzo ai palazzi, raggiunge l’ingresso dell’ospedale San Martino. La discesa è stata un vero incubo: a terra la neve marcia rendeva difficile l’equilibrio.

Le mani costantemente vicine al mancorrente (dove era presente). Praticamente ero più simile alla (molto) brutta copia di una étoile della Scala che ad una persona (più o meno) normale che scende una strada.

Ma, fortunatamente, sono (siamo) arrivati in fondo senza graffi.

Poi ci siamo salutati ed ho preso la strada di casa camminando per buona parte nella corsia protetta degli autobus, che era sgombra da neve.

La cosa importante

Pensandoci bene, al fondo, la cosa importante non è stata la meta.

Mi sono reso conto che tante volte, forse anche un po’ troppo spesso, non abbiamo più il tempo per fare ciò che ci piace davvero, per le cose belle, perché abbiamo troppe cose da fare, troppe cose a cui pensare!

Di avventure ce ne sono e ce ne sono molte: anche vicino a casa.

Basta solo avere la voglia di uscire e di andare ad esplorare!

 

 

Verso il mare

Ci svegliamo di buon’ora, facciamo una frugale colazione, chiediamo indicazioni per una scorciatoia che ci porti sul sentiero in alto, paghiamo e usciamo all’aria frizzante del mattino.

Cappella della Costa

Seguiamo le indicazioni ricevute e in breve raggiungiamo la Cappella della Costa, quindi la cima del Monte Lavagnola, da cui si ha la prima fugace apparizione del mare.

Costeggiamo l’abitato di Sottocolle e in questo tratto rimango nuovamente da solo. I due leprotti si sono lanciati di corsa in discesa.

Io cerco di capire se i due disagiati sono davanti a me. Provo a telefonare più volte, ma entrambi non rispondono. Dopo svariati tentativi, danno segno di sé e mi dicono di essere poco più avanti a me. Li raggiungo, ma la loro compagnia dura, ahimè, poco.

Poco prima di un pugno di case, prima di un ponticello, il sentiero si stacca sulla sinistra e inizia a salire in modo deciso. Io rientro in “modalità trattorino”, getto lo sguardo il più avanti che posso ma non li vedo.

Possibile? Ma che andatura tengono? Boh…chiederò l’antidoping!

Arrivo a S. Alberto di Bargagli, chiedo a un paio di persone che incontro se hanno visto due disagiati che cercano di correre, ma la loro risposta è negativa.

Poco più avanti un ristorante.

Decido di fermarmi ad aspettarli, perché da lì avrebbero dovuto transitare. Intanto placo il mio appetito lupigno.

Mentre azzanno un paio di piccoli panini imbottiti, gusto anche la mia vendetta, consapevole del fatto che, non potendo competere in velocità, l’unica possibilità è data dal verificarsi di eventi fortuiti. Che puntualmente accadono.

I due leprotti, correndo con lo sguardo puntato sulle loro scarpe e con zero attenzione al segnavia, hanno continuato dritti sul ponticello e si sono ritrovati sulla strada provinciale.

Provo a telefonare. Subito nessuna risposta. Poi richiamano.

“Ma dove sei?”

“Ma dove siete voi? Io sono almeno venti minuti che sono arrivato a S. Alberto!”.

Correte, correte e non guardate dove mettete i piedi!

Inizio così, con puntuale regolarità, il “menaggio” che durerà fino all’arrivo.

Dopo la loro sosta per un rapido pasto, riprendiamo il viaggio verso il Colle del Bado. Scendiamo a Pannesi seguendo fedelmente il segnavia e risaliamo a Case Cornua (col senno di poi, però, è di gran lunga preferibile raggiungere la SP67 a Case Becco e poi scendere a Case Cornua sulla strada asfaltata).

Sosta per un bicchiere di coca alla Trattoria.

Da qui è possibile vedere Sori e il mare. Si apre il cuore!

Ormai è solo discesa.

Essendo questo pezzo della Via del Sale ben conosciuto da almeno uno dei leprotti, rimango per lunghi tratti nuovamente da solo. Ci ricongiungiamo sotto la statua del Redentore, scendendo verso Sant’Apollinare, quindi raggiungiamo la meta del nostro viaggio.

A rotta di collo verso il mare

Mentre scendo la ripida mattonata verso Sori, con il mare davanti agli occhi, mi vengono in mente le parole di Fabrizio de André:

“Bacan d’a corda marsa d’aegua e de sä

Che a ne liga e a ne porta ‘nte ‘na creuza de mä”.

 

 

Giorno 2: circa 26 km e 600 mD+

Epilogo

La Via del Sale è finita.

Qualcuno rincorre la corriera che sta passando, qualcuno ozia in stazione aspettando il treno per Genova, qualcuno torna a casa a piedi.

Siamo stati molto bene insieme: è bello condividere il disagio con chi ti capisce.

Abbiamo “viaggiato” lungo i crinali dell’Appennino; ci siamo riempiti occhi e cuore di bellezza, di paesaggi che ci rimarranno impressi per molto, molto tempo.

É stata davvero un’esperienza fantastica!

Grazie Ravatti!

Alla prossima!

(Fine)

Verso l’Antola

Da Capanne di Cosola attraversiamo uno degli scenari più belli di tutta la Via del Sale. Il primo pezzo è, quasi sempre, in cresta. Il panorama intorno a noi è sempre molto bello; gli scorci molto suggestivi.

Si raggiunge in poco tempo il Monte Cavalmurone. Un po’ di sali e scendi, per fortuna leggeri, e si arriva al Monte Carmo. A questo punto abbiamo deciso di non conquistarne la vetta ma di girarci attorno, perché il meteo non era rassicurante ed eravamo già in ritardo sulla tabella di marcia.

Con disappunto, la trattoria a Capanne di Carrega non è chiusa: di più. Sbocconcelliamo qualcosa circondati da un paio di felini miagolanti che, a giudicare dall’aspetto, hanno più fame di noi. Pur nella miseria del pasto, provo a condividere: ma le barrette non sono proprio quello che si aspettano cada dalle mie dita.

Se fino ad ora la Via del Sale aveva camminato tra Piemonte ed Emilia Romagna, ora, proprio dal Monte Carmo, si comincia a seguire la linea di confine che divide il Piemonte dalla Liguria.

Da Capanne di Carrega, il sentiero fino a Torriglia è familiare: ne conosciamo ogni pietra.

Chi volesse percorrere questo tratto della Via del Sale può scaricare i due Guidebook “Casa del Romano – Monte Antola” e “Torriglia – Monte Antola” 

All’altezza del Passo delle Tre Croci, telefono al “Mulino del Lupo” di Torriglia, dove avevo prenotato la cena e il pernottamento. Conversazione surreale.

“Pronto? Sono Gianfranco Ortu… ho prenotato per tre cena e pernottamento…”

“Dove siete?”

Fornisco le indicazioni e la risposta è stata: “Ma come? Siete ancora lì! Ma noi chiudiamo la cucina alle 21”.

PANICO! Qualche secondo di silenzio…

“Le passo il titolare…”

“Pronto… Marco?”

“Non preoccupatevi, vi aspettiamo…”

Click.

Bagliore di sole calante sull’Antola (Foto: F.B.)

La notte

All’ombra dell’ultimo sole non solo si è assopito il pescatore, ma pure noi quattro ci siamo preparati, sulle panche nei pressi della chiesetta di San Pietro, per affrontare in notturna la discesa dall’Antola a Torriglia. Non siamo saliti in vetta perché le nuvole erano basse e non avremmo goduto del panorama.

Indossate le lampade frontali abbiamo iniziato la discesa, lambendo il Rifugio Parco Antola.

Tra una sosta e l’altra per aspettare chi si è attardato, inizia il campionato delle belinate.

Chi ha dato il fischio d’inizio? Non ricordo, comunque è poco importante.  E’ stato uno dei momenti più divertenti in assoluto.

Ricordo però che siamo arrivati a nominare tra gli altri, in un crescendo rossiniano, i seguenti personaggi dei cartoon: il vicesceriffo Sonnacchia, Pugacioff il luposky della steppaff e infine Posapiano Rodriguez, il cugino di Speedy Gonzales. Roba da lacrimazione!

Dopo l’ennesima belinata, abbiamo raggiunto le case di Donetta e poi, poco più in basso, quelle di Torriglia.

Salutiamo uno degli amici che deve tornare a Genova e ci incamminiamo verso il Mulino del Lupo.

Gnammm e Ronnnfff

All’ingresso un gruppo di persone ci guarda un po’ stupito: da dove arrivano questi qui?

Entriamo. “Buonasera… Abbiamo telefonato circa un’ora fa…”

“Ah sì, accomodatevi”

Ci mostrano la stanza, i servizi con la doccia e ci dicono che intanto apparecchiano.

Prendiamo possesso delle rispettive brande, ci laviamo e, con indumenti meno marci di quelli che ci siamo appena tolti, mettiamo le ginocchia sotto il tavolo.

Sopra, sul tavolo, ogni ben di Dio per far pace con i nostri stomaci semivuoti!

Così, per dare un’idea: uno di noi tre, tra l’indifferenza generale, riesce a sbafarsi un’intera fiammanghilla di melanzane grigliate condite con olio e origano!!!

Un vero atleta estremo, un freeclimber della tavola. ???

Fatte quattro chiacchiere con altri baldi giovani che avevano fatto lo stesso percorso (ma accampandosi sul Chiappo con la tenda e beccandosi un temporale coi fiocchi), ci ritiriamo in buon ordine.

Il tempo di notare il cane di uno degli ospiti accanto al letto a castello vicino al mio (speriamo non mi azzanni il polpaccio se mi alzo nottetempo) e plano tra le accoglienti braccia di Morfeo.

Giorno 1: circa 45 km e 2.400 mD+

(Continua…)

Inizio di settembre 2017.

“Eravamo quattro amici al bar, che volevano cambiare il mondo…”

No, non è vero.

Intanto perché non eravamo al bar e poi, soprattutto, perché per tutti erano ormai trascorsi, inesorabilmente, gli anni fatati e i giorni passati a tessere le belle illusioni.

Eravamo quattro amici in chat (e lo siamo tuttora, beninteso), che volevano fare qualcosa di originale in un weekend di settembre, magicamente libero da tutti gli impegni e benedetto dalla benevolenza e dalla comprensione delle rispettive metà.

Ecco, così è più realistico.

Dove si va?

Io timidamente azzardo una proposta: la “Via del Sale”. Ma quale? Di vie del sale ne esistono tante. Io penso a quella che attraversa l’Appennino dall’Oltrepò pavese fino alla linea della costa ligure.

Un’idea stramba, ma che mi frulla per la testa già da qualche tempo.

Gli unici cui poterla proporre senza ricevere reazioni scomposte sono gli altri tre compari di questa avventura, perché disagiati come me.

Infatti, rispondono con entusiasmo. Non avevo dubbi. ???

Qualche settimana prima iniziano i preparativi: acquisto delle mappe (molto ben fatte quelle dello Studio Cartografico Italiano di Genova), frequentazione compulsiva del web alla ricerca di informazioni, studio dell’altimetria e della logistica (orario del treno, della corriera, dove dormire).

Infine, decisione finale: da mare ai monti seguendo il percorso del sale, oppure il contrario?

Prevale la nota romantica: arrivare al mare, che per noi genovesi ha sempre il suo perché.

In sintesi: da Varzi (Pv) a Sori (Ge), distanza circa 70 km da percorrere in due giorni.

Che il viaggio abbia inizio

Atrio della stazione di Genova Brignole. Come scolaretti in gita scolastica, ci dirigiamo verso il treno regionale che da lì a poco sarebbe partito alla volta di Voghera.

In carrozzaaaa! (come il capotreno di Frankenstein Junior)

Saliamo garruli e prendiamo posto cercando di fare meno casino possibile, per non disturbare i vicini che cercano di recuperare qualche minuto di sonno dondolati dal vagone. Ma non ci riusciamo.

“Voghera. Stazione di Voghera…regionale delle ore…diretto a… allontanarsi dalla striscia gialla”.

Dobbiamo scendere e cambiare mezzo di locomozione per raggiungere Varzi, piccolo borgo medioevale a 30 km da Voghera.

Trovato il terminal delle corriere e accertata l’ora di partenza, ci concediamo un caffè.

L’atmosfera è umida, pioviggina. Speriamo bene…

Sulla corriera, complice il fatto che è praticamente vuota, non riuscendo a trattenere l’entusiasmo iniziamo a sparare belinate in serie (scemenze, per i lettori non genovesi).

Il campionato delle belinate si sarebbe però tenuto nel bosco, di notte, molte ore più tardi.

Varzi. Discesi dalla corriera, pipi-stop ed ennesimo caffè in un bar e poi…

Viaaa

Il sentiero è fin da subito ben segnalato e all’inizio corre di fianco al torrente Staffora sul versante destro e comincia con una bella salita, intervallando tratti di sterrato a tratti di roccia. Si raggiunge la località di Monteforte, dove troviamo una fonte: ci dissetiamo e rabbocchiamo le borracce.

Un tratto di strada asfaltata, assolutamente non trafficata, ci porta fino a Castellaro dove facciamo sosta per azzannare un panino imbottito con il famoso salame di Varzi. Che è meglio di una barretta, diciamocelo!

Si cammina, si fatica, si suda, felici di farlo.

Si chiacchiera del più e del meno, soprattutto di trail, di corsa e di montagna, superando i dislivelli.

Lo spettacolo intorno è davvero di una bellezza unica.

La natura domina incontrastata ogni angolo della nostra visuale. Non ci sono paesi, automobili, strade, persone; tutto è bosco, tutto è verde.

Rifugio sul Monte Chiappo

A un certo punto davanti a noi si staglia la vetta del Monte Chiappo: lassù, in cima, riusciamo a malapena a scorgere il rifugio.

Non si tratterà dell’ultima salita della giornata, ma sicuramente della più impegnativa, tutta su un sentiero terroso reso sconnesso dal passaggio di mucche e cavalli e scavato dalle mountain bike. Stiamo per raggiungere il punto più alto di tutta la Via del Sale, nel punto in cui s’incontrano tre regioni, Piemonte, Lombardia ed Emilia Romagna.

Statua di San Giuseppe sul Monte Chiappo (Fonte: Escursioniliguria.it)

Fidarsi degli amici

Su quest’ultima erta, si compie il mio destino.

Abbandonato qualche chilometro prima da quelli che credevo amici, intenti a rincorrersi come leprotti sul sentiero, rimango da solo. Ma non faccio una piega: del resto, le poche gare di trail che ho fatto (partenza a parte), le ho sempre condotte per la maggior parte in solitudine, tranne quando sono stato raggiunto dalle scope.

 

Entro in “modalità trattorino”, regolo il passo e vado avanti. Li raggiungo in cima al Chiappo e, mentre sotto la statua di San Giuseppe ci copriamo per il  fastidioso vento che soffia, faccio le mie sonore rimostranze.

Ridiventati amici come fanno i bambini quando litigano, ripartiamo.

Io, però, medito vendetta…

Che panorama! Che spettacolo!

L’unico inquinamento visivo è la bizzarra cupola bianca del centro di controllo aereo che fa da cappello al Monte Lesima.

Un paio di chilometri tutti in discesa, su un sentiero terroso, ci portano infine a Capanne di Cosola.

Si sono fatte le due e mezza del pomeriggio e ci fiondiamo nel ristorante per mangiare qualcosa e riposare i piedi e le spalle.

(Continua…)