Quante volte ci siamo sentiti dire che dobbiamo apprezzare le piccole cose nella vita?

Ma anche io, come tanti, dimentico troppo spesso questo piccolo ma grande concetto!

Sì, la vita è una sola e dovrei (dovremmo), dedicare più tempo a quello che mi (ci) fa sentire davvero bene.

Io ad esempio, ma credo sia condizione ahimè comune, passo buona parte della giornata attaccato allo schermo di un portatile, tra le altre cose rispondendo alle molte email che intasano la mia casella di posta, magari tra una telefonata e l’altra.

Durante queste ore passate così, quando poi apro Facebook o magari Instagram mi soffermo a guardare con una (non) leggera invidia le immagini di quelle persone che sono là fuori, “per bricchi”, da soli. In me cresce sempre più una certa voglia di evadere.

La meta

Quante volte, attraversando la città verso levante ho notato la sua sagoma.

Quante volte ho visto foto scattate da amici che ne hanno fatto il loro terreno preferito di allenamento.

Ma io non c’ero mai stato.

Per pigrizia, forse. O per la comodità di raggiungere altri forti di Genova.

Ma non quel giorno. Per un giorno volevo che le cose andassero diversamente!

Le previsioni meteo non erano propriamente favorevoli, quel giorno. Prevedevano neve anche in città, ma io ero scettico.

Quindi mi sono messo al tavolo di lavoro come sempre, testa china e poca attenzione a quanto stava succedendo là fuori.

Ma dopo pranzo, mi accosto alla finestra e…sorpresa! Nevica davvero e fitto.

Targa sul frontale del forte

C’è la tempesta perfetta per… andare finalmente al Forte Richelieu!

Sono un lavoratore autonomo, lavoro prevalentemente a casa. Qualche volta questa condizione ha anche i suoi aspetti positivi: poter decidere all’improvviso di prendersi un pomeriggio di vacanza!

Una volta cambiato e indossate le scarpette da speed hiking, è come se fossi stato catapultato in un altro mondo.

Inizia l’avventura

Avvio il GPS sotto gli occhi stupiti di qualche rado passante (avrà fatto sicuramente la solita considerazione sul mio disagio mentale) e mi incammino verso la mia avventura!

Risalgo Corso Gastaldi mentre le auto prive di catene fanno fatica ad avanzare sullo strato di neve. Mi fermo sotto i portici per indossare i guanti perché ho già le mani intirizzite.

In Via San Martino il traffico è, se possibile, ancora più caotico, ma io avanzo leggero (si fa per dire) sulla neve non ancora calpestata, per non rischiare di scivolare.

Dopo qualche centinaio di metri, facendo lo slalom tra le auto incolonnate prendo Via di Chiappeto e qui iniziano i problemi: la primissima parte è in discesa ed è un’anticipazione di quello che troverò lungo la strada del ritorno. Non propriamente una passeggiata.

Crosa a me sconosciuta

Poi la mattonata innevata inizia a salire e la nevicata non accenna a smettere.

Verso l’ignoto: nel senso che io qui non ci sono mai passato nemmeno col sole.

Le nuvole sono basse, non si vede molto attorno. Io continuo a salire lungo quella che mi pare l’unica direzione possibile: copiando le impronte lasciate da qualche altro squinternato come me. Poi, ad un certo punto, le orme finiscono e rimango solo, immerso nel silenzio, in compagnia del mio respiro affannato e dei miei pensieri.

L’unico rumore è quello della neve che si rompe sotto il peso dei passi. Bellissimo!

Non sono solo

Un passo incerto, una roccia che non avevo intuito: scivolare è un attimo. Punto i bastoncini. Avanzo e mentre li sollevo per cercare un altro appoggio, mi accorgo di aver rotto il puntale di quello destro. E porca paletta!

Arrivo al Forte Richelieu

Così, adesso, mi trovo con un bastoncino che assomiglia a quello di Aigor. E mentre penso a come contattare Fulvio per farmi spedire le aste nuove, d’improvviso… Forte Richelieu Ululì.

Le nubi si erano un po’ diradate e adesso dalla sommità della collina potevo scorgere la città e potevo immaginare il rumore e il traffico congestionato per la neve.

Se ci ripenso che un’ora prima ero con gli occhi attaccati allo schermo del computer e adesso ero del tutto immerso nella natura, che bella sensazione!

Ero completamente assorto nei miei pensieri mentre cercavo di intuire una direzione per scendere, ma in realtà andando in senso opposto, che non mi ero accorto che c’era una persona dietro di me.

 

Mi volto stupito, ma contento di non essere solo.

Il giovanotto mi ha confessato di essere uscito per fare quattro passi sulla neve ma poi, avendomi visto salire verso il forte aveva deciso di raggiungermi. Altra piacevole sorpresa: era sardo come me!

Bene! Così adesso eravamo in due nel bosco, con la neve sopra le caviglie, senza avere un’idea della strada da seguire.

Volteggiare leggiadro, rischiando ad ogni passo

Abbiamo iniziato a scendere ad intuito. Abbiamo iniziato a chiacchierare, a parlare della nostra Isola e di quanto sia bella, soprattutto nell’interno. Poi, raggiunta la parte alta di Via Berghini è diventato tutto più semplice. La strada, dapprima sterrata, diventa cementata e quindi asfaltata.

Iniziamo a scendere stando attenti a camminare sulla neve non pestata per avere più presa. Seguiamo la strada asfaltata fino al Forte di Santa Tecla, quindi imbocchiamo una stradina stretta e ripida che, passando in mezzo ai palazzi, raggiunge l’ingresso dell’ospedale San Martino. La discesa è stata un vero incubo: a terra la neve marcia rendeva difficile l’equilibrio.

Le mani costantemente vicine al mancorrente (dove era presente). Praticamente ero più simile alla (molto) brutta copia di una étoile della Scala che ad una persona (più o meno) normale che scende una strada.

Ma, fortunatamente, sono (siamo) arrivati in fondo senza graffi.

Poi ci siamo salutati ed ho preso la strada di casa camminando per buona parte nella corsia protetta degli autobus, che era sgombra da neve.

La cosa importante

Pensandoci bene, al fondo, la cosa importante non è stata la meta.

Mi sono reso conto che tante volte, forse anche un po’ troppo spesso, non abbiamo più il tempo per fare ciò che ci piace davvero, per le cose belle, perché abbiamo troppe cose da fare, troppe cose a cui pensare!

Di avventure ce ne sono e ce ne sono molte: anche vicino a casa.

Basta solo avere la voglia di uscire e di andare ad esplorare!

 

 

C’era una volta una croce. Ora non c’è più. Nella notte di lunedì 29 ottobre 2018 è crollata a terra.

Se ne stava là, un pò arrugginita dal tempo che, inesorabilmente, passava. Circondata dai prati (per la verità un pò spelacchiati) e da tanti ripetitori di radio e tv.

Per più di 100 anni ha vegliato su Genova dagli 800 metri del Monte Fasce, sconfiggendo maltempo e tempeste di vento. Alta 14 metri e pesante 3.500 kg. 

C’era una volta un sentiero. Tranquilli, quello c’è ancora e sale in verticale “#FromSeatoSummit“.

Prospettiva verticale

L’anno scorso Sisport, la società sportiva che ha avuto pietà delle mie velleità e ha accettato di tesserarmi, ci ha organizzato il Genoa Night Vertical.

Chi lo conosce come il sottoscritto, il sentiero, lo percorre anche quando non c’è la gara.

Il percorso parte dalla spiaggia e, dopo un breve passaggio tra le case di Nervi diventa tutt’uno con il sentiero che sale in verticale.

Il sentiero non è proprio cattivo, ma scontroso sì. Però è molto bello. 

Solo in qualche tratto smette di tormentare il respiro e concede di riprendere fiato. Si fa pregare per quasi tutta la sua lunghezza, anche se non è tanto lungo.

…pant…pant… quasi in cima…

Quasi da ogni tratto del sentiero, se puntavi lo sguardo in alto, poco sotto l’azzurro del cielo o la cercavi tra le nuvole basse potevi scorgere lei, la croce: alta, alta e man mano più vicina.

Quello era l’arrivo della gara: che fosse quella organizzata o la tua personale contro il cronometro.

Quando percorrevo il sentiero, soprattutto quando ero poco allenato (cioè la mia condizione più o meno “standard”), mi chiedevo spesso dove fosse finito l’ossigeno; che cosa ne fosse stato dei miei quadricipiti; se mi fossi messo in ascolto, avrei certamente sentito tutti, ma proprio tutti, gli insulti dei miei polpacci.

Il segreto: tapparsi le orecchie e utilizzare contro la mente un’arma di distrazione efficace. Sembra facile…

La mente

Eh, cari miei: la mente è ingannatrice!

Lei sapeva del sentiero verticale. Sapeva che cosa era, cosa ne sarebbe stato dell’ossigeno, dei polmoni, delle mie povere zampette. Era cosciente che lei, solo lei, avrebbe permesso alla mia povera carcassa di bradipo di arrivare alla croce in alto e ai miei polmoni di cercare aria a bocca aperta una volta raggiunta.

Quel sentiero, la mente, lo conosceva da anni. Sapeva cosa faceva a chi si azzardava a metterci i piedi sopra.

Ma non potevo farci niente. Io, al massimo, avrei potuto provare a far tacere la mente mentre cercavo di rendere meno ripido il sentiero. Ero (ma sono ancora) un povero illuso che camminava il più velocemente che poteva, ansimava e si dimenava per andare in alto e arrivarci, possibilmente, con un minimo di dignità appiccicata alla maglietta.

Ma poi ci arrivavo, magari strisciando, quasi, ma ci arrivavo.

E salutavo la croce guardando il sentiero che mi osservava dal basso.

Il sentiero

Lui mi conosceva. Sapeva già, infatti, che sarei tornato ancora. Prima di quanto avessi potuto immaginare.

Non mi sembrava, non volevo crederci: ma era proprio così! E’ furbo, il sentiero: non lo fa vedere.

Sorrideva sotto l’aria burbera.

Il sentiero verticale mi ha lasciato dentro un marchio, una specie di virus: il desiderio di salirci nel minor tempo che mi è possibile (ma in realtà a lui non interessa un fico secco della mia velocità!); il desiderio di calpestarlo ancora per mettermi nuovamente alla prova. Di arrivare in cima.

Dove non troverò più ad attendermi, almeno per ora, la Croce del Fasce.

 

 

Estate 2017.

La sveglia è puntata alle 5:00. E’ l’ora in cui il mio corpo, da un po’ di tempo, decide autonomamente che non è necessario riposare oltre. Per un riflesso condizionato mi sveglio sempre qualche minuto prima. Allungo il braccio per cercare di anticiparne il suono, non svegliare Anna e possibilmente non far cadere gli oggetti presenti sul comodino (soprattutto libri e riviste di montagna o corsa).

Sono il re del disordine!

Poi tutto precipita

Quando non mi preparo la sera prima (capita molto spesso), cerco nelle scatole piene di indumenti che conservo nell’armadio, i pantaloni, gli slip, le maglie e le calze. Nel tempo ho affinato la tecnica della ricerca al buio, sempre per non svegliare la mia dolce metà (per essere sincero, qualche cosa si più di metà). Quindi la colazione, un salto in bagno per la rasatura e per liberarmi delle scorie.

Recupero lo zaino adatto al giretto che ho in mente con le borracce (quelle morbide, chiamate soft flask), controllo che ci siano almeno uno strato caldo e il guscio e una maglietta di ricambio più o meno pesante a seconda della stagione. Indosso le scarpe leggere (quelle che userò per camminare in montagna le porto in una borsa), afferro le chiavi di casa e della macchina e sono fuori (questa, però, è la mia condizione normale ed è un’altra storia).

Ma sta ancora albeggiando!

Carico tutto in macchina, metto in moto e…via verso le amate montagne!

Sopraelevata e poi autostrada.

Milionesimo passaggio sul Ponte Morandi.

La A10 si dipana sotto le ruote verso Savona: a sinistra il mare a destra il Parco del Beigua.

E’ solo il primo spettacolo della giornata.

Dopo nemmeno mezz’ora svolto verso Torino sulla A6 che un tempo, prima del suo raddoppio, aveva la sinistra nomea di “autostrada della morte” perché presentava zone di sorpasso alternate per senso di marcia.

Ad Altare sosta obbligata all’autogrill.

La ragazza dietro al banco, data l’ora, non mescola birra chiara e Seven-up (cit. “Autogrill”, F. Guccini) ma piuttosto prepara caffè e cappuccini per gli assonnati avventori, molti dei quali diretti sulle Marittime.

Io azzanno un pezzo di focaccia e sorseggio un caffè macchiato. Rapida occhiata ai quotidiani (eventuale pipi-stop) e di nuovo in autostrada.

Sempre la stessa reazione

Qualche chilometro dopo si scollina ed ecco il secondo, emozionante spettacolo della giornata: le Alpi. In una visione le abbraccio tutte: dalle Liguri alle Marittime fino al Re di Pietra, la cui sagoma inconfondibile si staglia all’orizzonte e si ingrandisce man mano che mi avvicino a Mondovì. Estate o inverno, è sempre lo stesso emozionato stupore.

Poi, come da antica abitudine esco a Mondovì e imbocco la strada provinciale in direzione Cuneo. Non c’è verso: anche se adesso, uscendo dopo Magliano Alpi è tutta autostrada fino a Cuneo, il mio gps interno mi fa andare “in automatico” per la strada che facevo con papà per andare a Castelmagno.

Cuneo, Borgo San Dalmazzo, Sant’Anna di Valdieri.

Stooop! Arrivato.

Verso la meta

In rapida sequenza: posteggio; cambio le scarpe; indosso lo zaino; riempio le borracce alla fontana di acqua freschissima, quasi gelida; prendo i miei insostituibili N&W Curve; mentre lo faccio partire controllo l’ora sul gps e imbocco il sentiero che attraverserà il Vallone della Meris.

E’ tanta l’energia, ma devo regolare il passo per non scoppiare subito.

Salgo. E mentre salgo, mi rendo conto che era tutto quello di cui avevo bisogno.

La mia mente è ora incredibilmente sgombra; un unico pensiero vaga sereno e in armonia col resto del corpo. Camminare seguendo il ritmo del mio respiro.

Rallento di fronte all’affanno, mi fermo qualche minuto dinanzi alla stanchezza, accelero per mettermi alla prova.

Dopo un’ora e mezza o poco più raggiungo il Lago Sottano della Sella e il Rifugio Livio Bianco.

Lago Sottano della Sella e Rifugio Livio Bianco

Terzo spettacolo della giornata. Mi riprometto di fermarmi al ritorno per mettere le ginocchia sotto il tavolo per pranzo o, più probabilmente, merenda (non voglio cancelli orari!) e per salutare Livio, il gestore.

Il sentiero si fa più ripido in alcuni tratti, il fiato a volte un po’ affannoso. Dopotutto sono partito dal livello del mare e mi trovo sopra i 2000 metri. Non sono granché allenato e soprattutto, le primavere iniziano a farsi sentire!

Libero di sognare

Qualche tornante ancora e, dopo una bellissima cascata, si apre lo spettacolo del Lago Soprano della Sella.

Lago Soprano della Sella

Solo. Sono solo di fronte a tanta bellezza.

Il primo pensiero è agli affetti che mi hanno lasciato.

Poi, chissà perché, fra tante possibili, mi vengono in mente le parole di una canzone di Vasco Rossi (cit. “I soliti”):

“Noi siamo liberi, liberi,

Liberi di volare

Noi siamo liberi, liberi

Liberi di sognare”

E’ proprio così che mi sento!

Sono un “diversamente atleta”

Infatti non sono mai stato un grande atleta; nemmeno piccolo, se per questo.

Durante le scuole elementari ho provato a giocare a calcio, in una squadra organizzata, non quello che si giocava per interi pomeriggi negli spiazzi rubati ai parcheggi intorno a casa.

Ma non c’era verso, il confronto con gli altri bambini era impietoso: dimostrava con certezza quanto fossi scarso. In più iniziava a farsi strada la mia indole anarcoide.

Allora, seguendo le indicazioni più in voga in quegli anni, per rinforzare l’apparato muscolo-scheletrico, i miei genitori mi hanno iscritto ad un corso di nuoto presso la piscina Nico Sapio di Genova-Multedo.

E lì, nell’acqua clorata, andavo già meglio. Mi trovavo in qualche modo più a mio agio: il confronto era sì con altri ragazzini ma questo era uno sport individuale, non collettivo. Pur rimanendo sempre “diversamente atleta” (cioè atleta a modo mio, con i miei ritmi e i miei limiti), tuttavia sono riuscito a raggiungere la soglia della squadra agonistica, disputando anche una gara nella piscina di Rivarolo (non mi ricordo su che distanza, forse i 50 m. stile libero).

Ricordo però molto bene un episodio che, molti anni più tardi, avremmo definito “fantozziano”. Allo start, anziché protendermi in avanti per cercare di “rubare” acqua, ho accorciato il tuffo in maniera goffa, rischiando di piantarmi sul fondo della piscina e, ovviamente, perdendo inesorabilmente metri rispetto agli avversari. Come ho concluso la gara è, ahimè, facilmente intuibile.

Mentre “il limitare di gioventù salivo” (Leopardi adesso si rotola nella tomba), ho provato anche la pallacanestro (o, basket che dir si voglia), dal momento che proprio un tappo non ero. Ho frequentato per qualche mese la squadra messa insieme in parrocchia: però anche in questo sport non esprimevo il meglio. Entravo di rado (perché comunque, nonostante l’impegno, rimanevo scarso). Quando entravo, però, e per una botta di culo segnavo due canestri, ero contento perché ero convinto di avere disputato una grande partita.

Poi alle superiori, per emulare il mio carissimo amico Renato, mi sono iscritto al corso per arbitri di calcio organizzato dalla FIGC. Superato l’esame finale, calpestati con ogni condizione meteomarina i terreni in terra battuta degli infimi campi di Genova e dintorni, dopo un annetto il mio spirito anarcoide ha preso il sopravvento e ho chiuso senza rimpianti anche questa esperienza.

L’evoluzione di un runner qualunque

Però, come si dice, non tutto il male viene per nuocere.

Infatti, dovendomi allenare alla corsa, anche se non a quella di endurance, ho iniziato a frequentare un vicino di casa che praticava il “podismo amatoriale” (allora si chiamava così). Ero il più giovane della combriccola (poi mi sarei iscritto al Gruppo Sportivo CULMV – Luigi Rum), quindi non c’era necessità di procedere per gradi: primo allenamento 12 km lungo la Val Varenna. Conseguenza: dolori plurimi e protratti per una settimana almeno.

Poi, con il passare del tempo e dei chilometri, avvenne il primo cambiamento: da runner inconsapevole, presi consapevolezza dell’esistenza del cronometro. L’obiettivo diventava quello di coprire una certa distanza nel minor tempo possibile. La domanda ai compagni di allenamento o di squadra era una: quanto a km? Come accade prima o poi per ogni runner, arrivò anche il giorno in cui corsi per la prima volta 12 chilometri in un’ora: prima ho gioito poi sono svenuto. Al risveglio mi autoproclamai vero “runner”, anche se in fondo rimanevo un gran pippone (ma avevo ancora speranze di migliorare).

Il tempo passava e io continuavo a macinare chilometri e a partecipare alle gare podistiche amatoriali, che venivano definite “non competitive” ma prevedevano premi ai primi classificati. Alla faccia della non competitività!

Poi, non contento del solito tran-tran, come un tarlo un obiettivo si insinuò nella mia mente già completamente deviata: la mezza maratona prima e la maratona dopo.

Le tabelle: compagne inseparabili dei runner disagiati

Senza accorgermene, ho iniziato a consultare le prime tabelle di allenamento. Le tabelle…

All’inizio le leggevo con diffidenza sulle riviste specializzate dell’epoca (Jogging e, successivamente, Correre). Poi, ad un certo punto, sono rimasto avviluppato nelle loro spire. Tempi, km, passo medio, velocità, ripetute, lunghi, lunghissimi, progressivi, salite brevi… Tutto ruotava intorno a queste parole.

Però, nonostante la mediocrità dell’atleta, mi sono tolto qualche piccola soddisfazione cronometrica: la mezza maratona in 1h26’ e la maratona (l’unica cui abbia mai preso parte) in 3h35’. Roba da tirarsela manco fossi Gelindo Bordin (il mio mito di allora) alle Olimpiadi di Seul del 1988.

All’improvviso ti cambia la vita

Poi, d’improvviso l’incontro con lui: il tumore. Nello specifico un linfoma Non Hodgkin ad “alto grado” localizzato alle ossa. Le priorità diventano altre: elmetto in testa e combattere per la vittoria. Chemio, autotrapianto di midollo e, ciliegina sulla torta, protesi d’anca a destra. Sono uscito dal tunnel cambiato, molto cambiato ma VIVO!

E adesso? Ritrovatomi “bionico”, con un corpo estraneo nella zampa destra che sport avrei potuto praticare? Certamente il nuoto, forse il ciclismo… Semplicemente, per paura di rompermi, niente.

Anche chi mi circondava cercava di scoraggiare la mia voglia di recuperare la dipendenza da endorfine.

Negli anni successivi sono arrivate le prime esperienze lavorative (ho dato vita a una società di consulenza), il matrimonio e quelle prove cui la vita ti mette di fronte ma delle quali faresti volentieri a meno.

Non è poi proprio tutto finito…

Nel 2011 siamo con Anna in vacanza a La Thuile e, durante un’escursione vedo scritto sulle pietre, con uno spray rosso “GTV” e… TAAC: ho avvertito in quel momento che la mia vita sportiva stava per riprendere. E’ scattato qualcosa che non era il solito “clock” che sentivo nella zona lombare quando mi piegavo per allacciarmi le scarpe…

Ritornati in albergo, cercai disperatamente qualcuno che mi potesse confermare i sospetti: si trattava di una gara di corsa? La risposta era composta di tre parole: Gran Trail Valdigne!

Trail: che tipo di gara è? Quali le regole? E io avrei potuto partecipare solo camminando il più velocemente possibile? I giorni successivi, nei ritagli di tempo, cercavo di acquisire quante più informazioni possibile. Ma ne ero sicuro: avevo trovato la sfida giusta per un cinquantenne bionico.

Tornato a Genova, iniziai con metodo e disciplina gli allenamenti di camminata veloce e nel contempo ad accumulare indumenti, scarpe, attrezzatura per il mio primo “trail”.

Anche in questo caso, come agli esordi nel running, non ci sono state mezze misure: subito iscritto alla CANTOCA – Trail dell’Antola oltre 40 km e circa 2000 m D+. Un perfetto incosciente, nel senso etimologico del termine. Ma, nonostante il poco allenamento, arrivo in fondo aggiudicandomi il terzultimo posto. Nonostante i dolori postumi alle gambe per oltre una settimana, ero contento come George Pig quando salta nelle pozzanghere di fango!

Bradipo al Trail Monviso Race

Da questo momento è tutto un crescendo di allenamenti più o meno mirati e di obiettivi quasi sempre irraggiungibili: entusiasmo a mille! Quando ne parlavo, gli altri mi guardavano con diffidenza. “Sei pazzo” è la frase che mi sono sentito rivolgere più spesso. Familiari, amici, semplici conoscenti: tutti pensavano che fossi (e che in parte sia ancora) un disadattato, uno con problemi, uno con chiari segni di disagio mentale…e forse non hanno nemmeno tutti i torti!

Ma come tutti i pazzi io non mi sentivo (e non mi sento) tale. Mi sentivo (e mi sento) semplicemente da Dio. Quando riesco ad andare “per bricchi” (in montagna, in genovese) mi sento VIVO, in forma, attivo, pieno di energie.

Conclusioni agrodolci

Ed eccomi arrivato alla fine di queste riflessioni sulla mia esperienza di atleta disagiato.

Come tutte le cose belle, prima o poi, inevitabilmente arriverà anche il momento in cui la carcassa che mi porta in giro inizierà a funzionare meno bene. Fa parte del gioco: la zampa bionica (quest’anno festeggiamo 25 anni insieme) ogni tanto mi ricorda che c’è anche lei; le primavere, inesorabilmente passano anche per me (anche se quando sono per monti mi sento immortale); la schiena che in conseguenza di ciò mi da un po’ più fastidio…

Pertanto, avendo dimostrato a me stesso che ce la potevo fare anche io a finire un “ultratrail” (il Neandertrail e quello del Lago d’Orta), che ce la potevo fare anche io a fare lunghi percorsi in montagna (non necessariamente in gara), mi sto avviando verso il declino agonistico.

Certo, tutti gli anni rinnovo il certificato medico agonistico e ogni tanto mi viene voglia di iscrivermi a qualche gara e, in futuro, se sarò nelle condizioni giuste (soprattutto di serenità) per affrontare la preparazione lo farò sicuramente.

Per ora…no.

[dedicato a tutti gli atleti disagiati che sanno che non vinceranno mai una gara e il cui unico avversario è colui/colei, ogni giorno meno giovane, che incrociano tutte le mattine al di là dello specchio]